Perquisito per punizione e trasferito in una cella d’isolamento. E’ il trattamento al quale è stato sottoposto Julian Assange nei giorni scorsi, in coincidenza con l’annuncio della firma da parte di Priti Patel, ministra dell’Interno del governo britannico di Boris Johnson, del decreto che ne autorizza la contestatissima estradizione negli Usa. Estradizione già approvata dalle corti del Regno Unito, nonostante le proteste di attivisti dei diritti umani, associazioni per la tutela della libertà d’informazione e organismi dell’Onu. Con l’estradizione negli Stati Uniti il fondatore WikiLeaks di rischia di essere condannato fino a 175 anni di carcere per aver contribuito a rendere pubblici documenti riservati imbarazzanti per molti governi. Grazie ad Assange vennero resi pubblici anche file relativi a crimini di guerra americani in Afghanistan o Iraq.
A denunciare il trattamento al quale è stato sottoposto il giornalista australiano è stata la moglie, l’avvocata sudafricana Stella Moris. Secondo la donna gli addetti della prigione di massima sicurezza di Belmarsh (in cui Assange è detenuto da oltre tre anni, pur non avendo più alcuna pendenza con la giustizia britannica) hanno sostenuto di dover procedere così “per la sua protezione”. Ma in realtà gli hanno inflitto “semplicemente un ulteriore castigo extra giudiziale“, commettendo un abuso “inaccettabile e sicuramente illegale”. Stella Moris ha aggiunto che nel weekend successivo all’annuncio di Patel al fondatore di WikiLeaks è stata preclusa qualunque visita, malgrado egli abbia ancora diritto a chiedere l’avvio di un ultimo iter d’appello (entro 14 giorni), prima dell’ipotetica consegna agli americani. Questi fatti – ha commentato John Rees, animatore della campagna ‘Assange libero’ – “mostrano come le autorità reagiscano in modo vendicativo alle pressioni. E come noi dobbiamo raddoppiare gli sforzi per fermare l’estradizione, per il bene di Julian Assange e in nome della difesa della libera stampa”.