Diritti

Prostituzione, il modello nordico non piace ai sex workers: l’importante è discuterne

di Roberta Ravello

La senatrice Alessandra Maiorino (M5S) ha presentato ad aprile scorso un disegno di legge, il 2537, titolato “Modifiche alla legge 20 febbraio 1958, n. 75 e altre disposizioni in materia di abolizione della prostituzione” che, se approvato, imporrebbe multe ai clienti di chi lavora nel sesso comprese tra i 1.500 e i 5.000 euro. In caso di recidività a persone già ammonite, la pena diventerebbe la reclusione da sei mesi a tre anni, con la multa da 5.000 a 15.000 euro.

Una proposta, presentata poi a un convegno recente sulla prostituzione in Senato, intitolato “L’Italia è pronta per il modello nordico?” che è stata criticata sia dal Partito Radicale sia da Pia Covre, ex prostituta, attivista e sindacalista da tempo impegnata nella promozione della tutela dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori del sesso.

L’iniziativa nelle intenzioni dovrebbe portare ad adottare il cosiddetto modello nordico, che disincentiva la domanda multando i clienti. Questo modello è già in vigore in Svezia, Norvegia, Islanda, Irlanda, Francia e presto anche in Spagna. La ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia Elena Bonetti si è detta a favore, ma chi pratica il mestiere come scelta, non come vittima di tratta, potrebbe avere idee contrarie. C’è ad esempio un movimento internazionale per decriminalizzare la prostituzione, vedi qui il documento rilasciato nel 2015 dall’Open Society Foundations. Tali liberali sulla prostituzione sostengono che depenalizzare aiuterebbe a proteggere le lavoratrici e i lavoratori del sesso massimizzando la protezione legale di chi ne è interessato e la loro capacità di esercitare altri diritti fondamentali, tra cui la giustizia e l’assistenza sanitaria. Il riconoscimento legale di questa occupazione massimizzerebbe protezione, dignità e uguaglianza di chi sceglie di esercitarla, sottraendo queste persone alla violenza protetta dallo stigma.

Per quanto riguarda le vittime di tratta e di sfruttamento sessuale, costoro sostengono che la legalizzazione, sottoposta a regole, aiuterebbe a denunciare e a perseguire i papponi e il racket della tratta. Inoltre, obbligherebbe gli stati a campagne informative sui diritti e ad investire in protezione e sanità delle lavoratrici e dei lavoratori del sesso. Un po’ come la politica di legalizzazione della cannabis che, agli occhi dei promotori, aiuterebbe a sconfiggere la criminalità organizzata che trae vantaggio dall’illegalità della distribuzione delle cosiddette droghe leggere.

Quale che sia la cosa migliore, depenalizzare la prostituzione volontaria o criminalizzare i clienti, sicuramente lo status quo aiuta solo il crimine. Allo stato attuale infatti, la prostituzione esiste; percorsi reali, solidi, conosciuti e promossi dalle istituzioni per aiutare le vittime a denunciare, e per il loro reinserimento nel mondo del lavoro legale, non ce ne sono. Le vittime – la parte più fragile delle persone che esercitano la prostituzione – sono lasciate sole a subire non solo un lavoro che non hanno scelto, ma anche lo stigma sociale dell’isolamento, la violenza eventuale dei clienti a fronte di una quasi impunibilità o legittimazione culturale alla brutalità (si fa del male a delle o dei paria, privi di diritti) e la difficoltà a trovare una strada diversa. Quindi, che l’Italia sia pronta o meno al modello nordico piuttosto che ad altro modello, di sicuro è pronta ad affrontare il problema che, se non discusso da tutte le parti in causa, diventa un regalo alla criminalità.

Io non mi schiero né da una parte né dall’altra, se non con le vittime vulnerabili e invisibili, per lo più donne straniere, spesso anche minorenni che, a parlare del fenomeno e a cercare una qualche soluzione che non sia solo l’aiuto delle poche organizzazioni umanitarie attive sul tema, trarrebbero solo beneficio.

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