di Pietro Lo Cascio, naturalista
Fino agli anni Cinquanta del XX secolo, i bollettini degli istituti di Agraria di numerosi atenei italiani erano soliti riportare lunghi elenchi delle invasioni di cavallette che – come un flagello biblico – si registravano ogni anno nel Paese, in modo particolare nelle regioni meridionali. Tra queste anche la Sardegna, dove per arginare il fenomeno già nel 1946 era stata sperimentata una nuova forma di lotta biologica, con l’introduzione di una specie di coleottero le cui larve sono specializzate nel predare le uova di cavallette.
Per lungo tempo il metodo ha funzionato. Da alcuni anni, invece, l’equilibrio tra preda e predatore è drasticamente mutato a favore della prima, e le cavallette stanno causando ingenti danni in vaste aree dove agricoltura e pascolo rappresentano un elemento fondamentale dell’economia. Eventi del genere si ripropongono periodicamente nei cicli demografici di questi insetti, il cui nome scientifico – Dociostaurus maroccanus – contiene un ingannevole riferimento geografico, dato che la specie è ampiamente diffusa dalle Canarie all’Afghanistan. Tuttavia, è difficile individuarne con esattezza la causa: potrebbe dipendere da diversi fattori, come l’aumento dell’aridità, la ridotta efficacia dell’azione dei predatori che abitualmente ne contengono le popolazioni, o ancora il pascolo eccessivo e incontrollato e il conseguente impoverimento della vegetazione.
Il problema è che in Italia le risorse destinate agli studi di entomologia agraria sono sempre meno consistenti; così, un evento del genere – che sia nuovo o di biblica memoria – ci coglie impreparati, tranne che nell’evocare l’ennesima “emergenza” a fronte della quale procederemo a tentoni, nel buio dell’assenza di adeguate azioni preventive.
Nel caso delle cavallette, la massiccia infestazione di quest’anno era stata preceduta da “esplosioni” demografiche più piccole e localizzate; poiché la specie è univoltina, ossia ha solo una generazione annuale, forse si sarebbe potuto agire per tempo e con maggiore facilità, effettuando lavorazioni superficiali nei terreni e negli incolti dove era stata riscontrata la presenza di individui in fase riproduttiva (e dunque delle uova). In alternativa, si sarebbero potuti avviare nuovi interventi di lotta biologica, o persino ricorrere a trattamenti locali mirati con insetticidi – anche se in molti ritengono obsoleto tale metodo – che certamente ormai risultano improponibili, considerata la vastità delle aree infestate (si parla già di decine di migliaia di ettari, ma l’estensione è in costante incremento). Certo, risulta di maggiore “effetto” richiedere l’intervento dell’esercito o il risarcimento dei danni al governo, che probabilmente spenderà molto di più per sedare le lamentele degli agricoltori di quanto gli sarebbe costato investire nella ricerca e nella prevenzione.
Il voracissimo Dociostaurus è dunque straordinariamente fecondo, ma non solo: durante la fase “gregaria” è anche capace di trasferirsi in massa coprendo distanze di oltre un centinaio di chilometri, decisamente superiori a quelle che separano la Sardegna dalla Corsica, o quest’ultima dalla Penisola. Niente di strano, pertanto, che – complice una stagione caratterizzata da eccezionale aridità e un costante incremento delle temperature – a breve ce lo si possa ritrovare tra i campi di cereali e i vigneti dall’Appennino alla Sicilia, costringendoci a ripristinare vecchie ma poco rassicuranti consuetudini: quelle dei bollettini di “guerra” biologica post-bellici che però – risparmiando almeno un bene prezioso come la carta – oggi finirebbero per essere pubblicati on-line.