Il riconoscimento dello status di candidato a Kiev è stato il prologo di un duro scontro tra i Paesi europei e Macedonia del Nord, Albania, Serbia, Kosovo, Bosnia-Erzegovina e Montenegro. Paesi che per motivi diversi vedono da anni fermo il loro processo di adesione. Tensioni che danno ancora più forza a chi sostiene l’ipotesi di rivedere i trattati, abolendo il principio dell’unanimità
Il giorno dell’Ucraina è diventato il giorno dei Balcani. Il riconoscimento dello status di candidato a Kiev è stato il prologo di un duro scontro tra i Paesi europei e i 6 rappresentanti dei Balcani occidentali (Macedonia del Nord, Albania, Serbia, Kosovo, Bosnia-Erzegovina e Montenegro), il cui processo di adesione all’Unione è fermo ormai da anni. Dopo il nulla di fatto dello scorso ottobre in Slovenia, quest’incontro poteva essere un’occasione per rilanciare il dialogo tra Bruxelles e la regione balcanica, in particolare con Macedonia del Nord e Albania che sembrano i Paesi con più possibilità di entrare, ma anche questa si è dovuto rimandare alla prossima. “È cosa buona dare lo status di candidato all’Ucraina ma spero che il popolo ucraino non si faccia troppe illusioni”, ha dichiarato il presidente albanese Edi Rama, facendo riferimento agli 8 anni di attesa di Tirana per iniziare i negoziati di ingresso in Europa. Se l’Albania aspetta da così tanto tempo di entrare nell’Unione è perché la Bulgaria ha bloccato sia il suo ingresso che quello di Skopje.
Il veto bulgaro e lo stallo politico – Sofia, infatti, è la causa principale del mancato inizio dei negoziato di adesione dei due Paesi balcanici, il cui ingresso è ormai vincolato l’uno all’altro. Mesi di trattative tra i due Stati e il nuovo governo bulgaro, guidato da Kiril Petkov, per cercare di raggiungere un compromesso sul veto alla fine sono stati inutili: la mozione di sfiducia di GERB, il partito dell’ex premier Boyko Borissov, contro l’esecutivo è passata in Parlamento, costringendolo alle dimissioni. Le ragioni che hanno spinto 123 deputati su 240 dell’Assemblea nazionale a votare contro il governo sono legate tanto a questioni interne, come la legge di bilancio, quanto esterne, in particolare i rapporti con la Russia, Paese dal quale la Bulgaria dipende dal punto di vista energetico, e la disputa storico-culturale con Skopje, visto che l’attuale governo dimissionario si era impegnato per cercare di trovare una soluzione con la Macedonia del Nord. Caduto il governo è caduta anche la possibilità di un mandato in extremis per il premier Petkov affinché revocasse il veto nei confronti dell’ingresso di Macedonia del Nord e Albania. Per questo sono caduti nel vuoto gli appelli di Bruxelles: “Esortiamo il parlamento bulgaro e tutte le parti a rispettare il loro impegno e a inserire la proposta su Macedonia del Nord e Albania all’ordine del giorno del Parlamento per l’approvazione nella giornata di oggi, come proposto dall’opposizione dei conservatori di Gerb, che ha messo la proposta sul tavolo”, ha twittato il commissario all’allargamento Olivér Várhelyi. Il partito dell’ex premier Borissov, infatti, ha già fatto sapere che in caso di ritorno all’interno dell’esecutivo sosterrà la fine del veto all’ingresso di Skopje e Tirana nell’Ue. “Ho espresso l’insoddisfazione del mio governo e della popolazione, per le dinamiche del processo di adesione e l’avvio dei negoziati. La Macedonia del Nord è candidata da quasi 18 anni. Abbiamo firmato l’accordo di associazione 21 anni fa. Nel marzo 2020 il Consiglio europeo ha deciso per l’avvio incondizionato dei negoziati tra la Macedonia del Nord e l’Unione europea. Ma siamo qui e i negoziati non sono ancora partiti. Ciò che succede ora è un problema serio per la credibilità dell’Ue. Stiamo perdendo tempo prezioso che non abbiamo a disposizione”, ha dichiarato a margine dell’incontro il premier macedone Dimitar Kovacevski.
La situazione in Kosovo, Serbia, Bosnia e Montenegro – La situazione non è diversa per gli altri 4 Paesi balcanici. Il confronto con le istituzioni comunitarie non ha risolto né la questione dei visti ai cittadini del Kosovo, da cui ci si aspetta che presenti domanda di adesione entro fine anno, né tantomeno ha riconosciuto lo status di candidato alla Bosnia-Erzegovina, che ha presentato domanda nel febbraio 2016 non ricevendo mai risposta, sebbene debba ancora implementare le 14 priorità-chiave. Un silenzio che ha creato malumori a Sarajevo, vista anche la velocità con la quale invece è stato concesso lo status a Ucraina e Moldavia, che però devono ancora portare a termine le loro riforme. E poi c’è la Serbia, l’unico Paese balcanico a non aver applicato le sanzioni contro Mosca, visti i rapporti presenti tra i due Paesi e anche tra il presidente Aleksandr Vucic e Vladimir Putin. Nonostante abbia condannato in sede Onu l’aggressione russa all’Ucraina i rapporti tra Bruxelles e Belgrado non sono mai stati così tesi, eppure proprio Vucic è stato il primo a lanciare segnali distensivi. “Oggi non è arrivato nessun risultato concreto ma c’è stata una buona discussione, e non voglio sottovalutarne l’importanza: la politica non gira sempre intorno ai risultati. Ma certo, la Nord Macedonia e l’Albania non hanno avuto l’apertura dei negoziati, la Bosnia non ha avuto lo status di candidato, il Kossovo non ha ottenuto la liberalizzazione dei visti”, ha dichiarato il presidente serbo all’uscita dell’incontro.
La riforma del processo di adesione e i favorevoli all’allargamento – Il caso bulgaro dà ancora più forza a chi sostiene non solo l’ipotesi di rivedere i trattati, abolendo difatti il principio dell’unanimità, ma anche l’idea francese di creare una sorta di comunità politica europea, che includa tutti i Paesi che non fanno parte dell’Unione come i Balcani o la Gran Bretagna. “È l’unico modo per i Balcani di essere ascoltati“, ha sentenziato Vucic. “L’Unione deve superare la regola dell’unanimità: non si può andare avanti con un Paese che blocca tutto”, ha dichiarato l’Alto rappresentante per gli Affari esteri Josep Borrell. Sull’ingresso dei sei Paesi della regione molti Stati europei hanno modificato la loro posizione negli ultimi anni. Se infatti tra il 2018 e il 2019 Francia, Danimarca e Paesi Bassi si erano espressi in modo contrario all’ingresso di Tirana e Skopje, adesso i loro propositi hanno decisamente cambiato segno: Parigi ne è diventata una grande sostenitrice e anche Copenaghen e Amsterdam stanno sostenendo il loro ingresso, consapevoli che un fallimento del loro processo di adesione rischia di destabilizzare la regione balcanica. Sono a favore anche l’Irlanda, con il primo ministro Martin che ha sostenuto come “Dublino sia assolutamente dalla parte dell’allargamento”, Germania, Italia e Grecia. In particolare, Atene si è molto prodigata perché il fascicolo relativo all’adesione dei Balcani occidentali proseguisse di pari passo con quello di Moldavia e Ucraina. Dal lato dei favorevoli ci sono anche i Paesi balcanici che ce l’hanno fatta, come Slovenia e Croazia, che hanno soprattutto spinto perché la Bosnia ottenesse lo status di candidato. Un pressing che al momento si è rivelato inefficace. Infatti, c’è un’altra metà d’Europa, costituita dai Paesi dell’Europa orientale e dell’area scandinava, rimasta silente e che non ha adottato particolari iniziative in merito. Un segnale che l’unità è ancora di là da venire.