Ogni quattro anni, con le estati olimpiche a riempire giornali ed esultanze, spunta qualche atleta che dal semi anonimato passa alla gloria. Questione di minuti: di prestazioni più o meno perfette che valgono le medaglie ai Giochi e l’ingresso nella ristretta categoria degli sportivi che ce l’hanno fatta. Di solito succede nelle discipline minori, definite così a causa dell’insopportabile vizio di pesare l’importanza di uno sport in base al seguito di pubblico. Ma tant’è. Non è questo il punto. Fatto sta che da essere nessuno, diventi un Dio. Per qualche giorno. E approfitti della ribalta mediatica. E ripensi a tutti i sacrifici fatti. E partono i ringraziamenti. Fateci caso: il primo grazie di solito è per “il mio maestro, quello che ha creduto in me e mi ha spinto a continuare nonostante le difficoltà”. Ecco: i primi maestri, quelli che insegnano sport, che crescono uomini e donne per farli diventare campioni. Vogliamo raccontarli così: capire il loro modo di intendere la competizione, scoprire i loro metodi, conoscere i loro aneddoti, sapere da chi hanno imparato. Ci saranno maestri noti e meno noti, espressione di discipline con grande o poco seguito. Unico comune denominatore: loro sono lo sport che insegnano e che hanno contribuito a migliorare. (Pi.Gi.Ci.)

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“Gigi Simoni e Giancarlo Cadè, entrambi purtroppo scomparsi, sono stati i miei maestri. Mi hanno dato consigli da genitori. È più facile fare un percorso se ad accompagnarti c’è qualcuno di più esperto”. Gianni De Biasi, classe 1956, è allenatore di calcio da più di trent’anni, dopo essere stato un discreto calciatore di Serie A e B. Ha vissuto anni bellissimi sulla panchina dell’Albania, qualificando la Nazionale per la prima volta agli Europei. È stato l’ultimo mister di Roberto Baggio. Oggi è il ct dell’Azerbaigian.
“Ho avuto Simoni a Brescia per due anni. Mi ha dato tanta fiducia, credo di essere stato un suo pupillo. Sentivo che c’era un rapporto stretto tra di noi. Era severo in alcuni momenti, ma capace di trasmettere tutta la sua tenerezza. Ti dava le cose, quando le meritavi”.

È così anche lei oggi?
“Il rapporto che ho con giocatori è simile a quello che riusciva a creare il mister. L’importanza di fare sacrifici: la montagna va scalata a piedi, non con l’elicottero, sennò non si apprezza il panorama. Bisogna sapere tirare fuori sempre qualcosa di più da se stessi”.

E Cadè?
“Era un uomo di una cultura straordinaria, faceva buone letture e amava la musica classica, il figlio è diventato un pianista conosciuto. Un uomo da cui potevi apprendere non solo a livello di calcio. Mi ha fatto esordire in A con il Pescare nella stagione 1977-78”.

Il suo primissimo allenatore come si chiamava?
“Valeriano Truccolo aveva una passione incredibile, nei piccoli paesi c’erano tanti uomini così una volta. Gente che stava nel mondo del calcio non per diventare ricca”.

Che rapporto aveva con suo padre?
“Mio padre era figlio di un commerciante e per avere una sua autonomia andò a lavorare in fabbrica. Non era un grande appassionato di calcio, quando veniva al campo non parlava mai. Sono andato via di casa a 17 anni ed è mancato quando ne avevo 31. I rapporti padre-figlio erano diversi da quelli di oggi, se penso a quello che ho con mia figlia. Allora era tutto più complicato, anche le comunicazioni a distanza lo erano senza le possibilità tecnologiche di adesso. Una volta i genitori dicevano tanti no, che però aiutavano a crescere”.

Dai suoi maestri ha preso insegnamenti anche a livello tattico?
“Allora c’era un’attenzione minima alla tecnica e alla tattica. Si badava maggiormente all’aspetto fisico, alla resistenza. Quelli bravi erano quelli che sfruttavano l’aspetto psicologico, ma non c’era ancora l’attenzione per la cura dell’aspetto mentale”.

Un allenatore da cui ha attinto per la tattica?
“Nevio Scala con il suo 3-5-2 stupì tutti, io ho cercato di fare le stesse cose con il 4-4-2. Tuttavia a fare la differenza è sempre la qualità dei singoli. Poi nel 1995 andai in Olanda con Maurizio Viscidi, gran teorico e didattico super. Lì c’era una metodologia uguale per tutte le categorie. Una cosa a cui non eravamo abituati”.

Cha calciatore pensa di essere stato?
“Non ho avuto vita facile, non ero certamente Gianni Rivera. Ho sempre faticato, però in ogni squadra in cui andavo ne diventavo il capitano. Guidavo il gruppo per merito del mio carisma naturale e per via dall’esperienze fatte in precedenza”.

Che ricordo ha dell’esperienza da ct dell’Albania?
“È una storia splendida nata da una frustrazione enorme in Italia. A Udine nel 2010 mi hanno mandato via dopo soli due mesi. Dentro di me dico: basta così, smetto. Mi chiama invece un procuratore chiedendomi disponibilità per la nazionale albanese. Lo mando a quel paese, ma lui insiste e mi dice di andare a parlare con il presidente della Federazione a Milano. Vado, dopo un po’ il procuratore mi richiama per dirmi che ero stato scelto. Ok, ma io non avevo ancora scelto loro. Non ero convinto”.

Alla fine il matrimonio si fece.
“È stata la mia più bella scelta a livello di calcio. Cinque anni e mezzo, sempre in crescendo. Quando poi sono arrivato al culmine, ho capito che non c’era più spazio per un miglioramento. Forse avrei potuto aspettare alcuni anni… perché poi sono usciti grandi giocatori che ora si sta godendo Reja”.

Come realizzò il miracolo, ottenendo all’Europeo del 2016 la prima storica vittoria nella competizione continentale?
“Molti dei miei giocatori vivevano fuori dall’Albania, ma tanti capivano l’italiano. Il primo biennio abbiamo faticato, poi la vittoria con il Portogallo ci ha dato fiducia. Alla prima partita misi una lettera sui posti dei giocatori in spogliatoio. Dissi al traduttore di non metterla giù come fosse un comunicato stampa, perché le mie parole dovevano arrivare al cuore. Il concetto era questo: ragazzi, se voi mi seguirete, sono convinto che diventerete eroi del vostro Paese. Io credo fortissimamente in voi. Ho giocato sul fattore emotivo, c’era parecchio di Simoni in quelle parole”.

Lavorando all’estero come è il rapporto con i traduttori?
“In Albania parlavo italiano, nel Levante e nell’Alaves lo spagnolo, oggi l’inglese con cui riesco ad arrivare al succo del discorso. Poi esiste un linguaggio del corpo fatto di mani, pugni e piedi che sbattono”.

A Brescia ha allenato l’ultimo Baggio. Come si lavora con un calciatore del genere?
“Beh, a lui non si insegna nulla. L’unica cosa che gli devi ricordare è che si chiama Roberto Baggio e che anche se ha male dappertutto la gente pretende che sia Roberto Baggio. Eravamo d’accordo che se me lo avesse chiesto, lo avrei lasciato fuori. Non me lo chiese mai. Era innamorato del gioco di calcio. È stato straordinario allenarlo. Persona normalissima, pane e salame… e giustamente un bicchiere di vino”.

È stato davvero così vicino alla Nazionale italiana?
“Sì, quando hanno scelto Ventura. Ormai sembrava fatta, già preparata l’intervista col Corriere della Sera che doveva uscire al momento dell’ufficialità. Per me fu una delusione enorme. Ma ora non ci penso più”.

Come sta in Azerbaigian?
“Sono qui da solo, mia moglie è rimasta a Conegliano e mia figlia studia all’università di Padova. So cucinare e qui ci sono ristoranti italiani. Me la cavo. A dicembre mi sono preso una bella bastonata con il Covid, perdendo sette chili. Ma mi sono ripreso. Ho un contratto fino a settembre 2022”.

Poi va in pensione?
“Manco morto, ho una voglia feroce di fare ancora bene, in una nazionale o in club, non è importante”.

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