Per quindici estati di fila Lidia (nome di fantasia) ha pulito le stanze nei villaggi turistici della provincia di Vibo Valentia. Dodici ore al giorno, sette giorni su sette. Il tutto per 31 euro a giornata. “Ci trattavano come muli” racconta a fattoquotidiano.it. “Ero arrivata a perdere cinque chili in meno di un mese a causa del lavoro”. Ma l’anno scorso ha deciso di dire basta. “Mi avevano chiesto di pulire la piscina con l’acido muriatico puro senza darmi stivali né guanti”. Dopo pochi minuti ha iniziato ad avvertire bruciori in gola e a respirare con sempre più fatica. Si è sentita male, ma non è andata in ospedale perché lavorava in nero, senza contratto. “Lì ho capito che non potevo più andare avanti così”. Lidia ha cambiato lavoro e oggi fa assistenza agli anziani. Quando legge dei lamenti degli imprenditori, che non troverebbero stagionali “a causa del reddito di cittadinanza”, le viene da sorridere. “Chi piange fotte a chi ride“, sintetizza, “ma la verità è che chi può va a lavorare all’estero, e chi non può cerca di cambiare settore. Non siamo più disposti a farci sfruttare”.

Le testimonianze in rete – La storia di Lidia non è isolata. Sono migliaia i lavoratori e le lavoratrici stagionali che ogni estate vengono impiegati nel settore del turismo in Calabria. C’è Laura, che pulisce più di 24 stanze di hotel dalle 9 alle 17 per tre euro all’ora. C’è Andrea, che prepara paste e risotti di pesce per cinque ore di fila a più di quaranta gradi di temperatura, e per resistere deve prendere la creatina. C’è Lucia, che lavorava fino a 16 ore al giorno come lavapiatti per quaranta euro, mangiando le rimanenze dai piatti che tornavano in cucina. Tutti fanno parte del gruppo Facebook “Mai più sfruttamento stagionale – Calabria”, che è nato sul web durante la pandemia per poi trasformarsi – grazie all’Usb calabrese – anche in un’aggregazione reale. “Sentiamo gli imprenditori lamentarsi che mancano gli stagionali a causa del reddito di cittadinanza: ma qui il problema non è il reddito, ma le condizioni e i salari che questi imprenditori offrono” dice Domenico Cortese, militante del sindacato di base. Cortese ha promosso un sondaggio virtuale su un campione di circa un migliaio di lavoratori. Risultato? Soltanto il sei per cento dichiara di avere un contratto in regola mentre più di un terzo riporta di aver subito infortuni sul lavoro ignorati o nascosti dal titolare.

“Non riuscivo a stare in piedi, ma niente malattia” – Dietro ai numeri, però, ci sono le storie delle persone. “Nel mese di agosto queste cose non devono capitare”. È la risposta che si è sentita dare Laura (nome di fantasia), cameriera ai piani di un villaggio turistico calabrese, quando ha avuto le coliche renali durante la stagione estiva. “Non riuscivo a stare in piedi, ero andata dalla guardia medica che mi ha prescritto le punture e dieci giorni di malattia. Ma la mia superiore non ne ha voluto sapere” racconta al fattoquotidiano.it. Così, per non perdere il posto, ha dovuto chiedere a sua sorella di sostituirla. “Ma alla fine della stagione non mi è stata pagata la malattia e sono stata lasciata a casa”. Laura lavorava trenta giorni al mese, dieci ore al giorno. Il salario? Tre euro l’ora, trenta euro al giorno, novecento euro al mese. Ma sulla busta paga erano segnate soltanto quattro ore giornaliere, dalle 9 alle 13. “La giornata iniziava alle sette del mattino quando preparavo il buffet per la colazione – racconta – poi iniziavamo a pulire le camere”. Anche 24 stanze in quattro ore, dieci minuti a stanza. E poi in giardino, in cucina o dove c’era bisogno: “Avevamo un contratto da addette alle pulizie, ma in pratica eravamo delle tuttofare”. Lavava gli stradoni con l’acido, bagnava le piante, lavava i piatti. “Ci dicevano che se ci fossimo rifiutate di farlo, ci avrebbero lasciate a casa e avrebbero trovato qualcun altro”. In caso di controlli era stata istruita su come rispondere: “Una volta ci hanno fatto nascondere i lavapiatti che lavoravano in nero nelle camere, per evitare che venissero notati”.

La creatina (o l’alcol) per reggere ai fornelli – “Immaginatevi di passare il 15 di agosto a pochi centimetri da una padella con dentro un risotto ai frutti di mare per venti persone. La temperatura supera i 42 gradi. Immaginate di passare cinque ore di fila così senza pause, due volte al giorno, sette giorni su sette”. Da vent’anni Andrea (anche qui il nome è di fantasia) lavora come cuoco in Calabria. Oggi ha cinquant’anni e, come all’inizio di ogni estate, si augura di “riuscire a finire la stagione”. Per questo nel corso degli anni ha iniziato ad assumere creatina per reggere quei ritmi. “In tanti bevono, anche durante il servizio, per riuscire ad arrivare a fine turno” spiega al fatto.it. “Quando ho iniziato vent’anni fa ero senza esperienza ma prendevo più di adesso. Le condizioni degli stagionali sono peggiorate”, racconta in uno dei rari momenti di pausa. Ha iniziato nel 2002 con uno stipendio da 1800 euro e due giorni liberi a settimana. Poi il passaggio a una grande catena di fast food: 1200 euro al mese per quasi settanta ore a settimana come capo cucina.

“In tanti scappano, è semi-schiavitù” – Oggi Andrea lavora in un agriturismo, con il contratto da cuoco del settore agricolo: 1400 euro al mese per cinquanta ore a settimana. Trenta giorni di lavoro al mese, senza riposo. Ma sulla busta paga sono segnati soltanto 15 giorni per 900 euro: “Gli altri 500 me li danno in nero”. Della tredicesima non c’è traccia, così come del Tfr: “A cinquant’anni non riesco manco a farmi fare un finanziamento per acquistare la macchina a rate”. E se dovessero esserci controlli? “Una volta è successo”, ricorda, “mi hanno fatto sedere allo stesso tavolo del titolare e hanno iniziato a farmi le domande con lui a fianco. Che cosa avrei dovuto rispondere?”. E così ha continuato a lavorare nello stesso settore, in condizioni che non esita a definire di “semi-schiavitù”. Oggi però, nota, qualcosa sta cambiando. “Tanti stanno scappando dal settore della ristorazione e non sono più disposti a lavorare a quelle condizioni”. Anche grazie al reddito di cittadinanza, che “ha permesso alle persone di uscire dal ricatto ed essere inserite in un mercato lavorativo diverso da quello degli stagionali”.

“Con il Reddito mi ribellerei” – Anche Lucia (nome di fantasia) lavora in un agriturismo che produce succhi di frutta biologici. Un’eccellenza nel campo della sostenibilità del prodotto, un po’ meno in quello delle condizioni di lavoro. Sul suo contratto sono segnate un centinaio di giornate lavorative all’anno, ma in realtà sono più del doppio. Così non riesce a ottenere i bonus fiscali e matura meno contributi rispetto a quelli che dovrebbe avere. Nella stagione estiva si occupa della gestione dell’agriturismo: pulire le stanze, preparare la colazione, lavare le lenzuola. Sette ore di lavoro al giorno per 35 euro. Ottocento euro al mese, 350 in busta paga. “E si lamentano pure che quest’anno non trovano personale per colpa del reddito di cittadinanza”. Lucia non è mai riuscita ad accedere al sussidio, ma si chiede: “Se mai riuscissi ad averlo perché mi dovrei spaccare la schiena per 800 euro quando posso prenderne 500 senza venire sfruttata?”.

I numeri dello sfruttamento – Dopo la nascita sul web, la rete calabrese ha iniziato a organizzare iniziative anche in presenza. Volantinaggi nei luoghi del turismo e assistenza nelle vertenze dei lavoratori. Oggi il gruppo “Mai più sfruttamento – Calabria” raccoglie un migliaio di stagionali che nelle scorse settimane hanno risposto al sondaggio proposto dall’Usb, per provare a dare una visione d’insieme delle condizioni di lavoro nel settore. Il quadro che emerge è quello di uno sfruttamento diffuso. Un lavoratore su cinque dichiara di lavorare in nero, il 64,2% ha ammesso di fare più ore rispetto a quelle previste dal contratto e soltanto il 6,3% afferma di avere un contratto in regola. Alla domanda “Hai mai ricevuto ricatti relativi al lavoro?” solo il 37,5% dichiara di non averne subiti, mentre più di un lavoratore su tre ha dichiarato di essere stato costretto a far finta di niente dopo un infortunio. E quando si parla di retribuzione, più della metà dei lavoratori dichiara di essere pagato meno di cinque euro l’ora. La vera domanda che andrebbe fatta ai datori di lavoro, conclude Cortese, è questa: “Se il tuo dipendente di due anni fa fosse stato pagato in regola, non avrebbe avuto un Isee così basso da prendere il reddito di cittadinanza. Dunque, se pensi che quest’anno non è venuto a lavorare per colpa del reddito, significa che non lo pagavi abbastanza, o lo pagavi in nero”.

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