Napoli l’aveva tatuata sull’anima. La inseguiva, ne attraversava i tortuosi cunicoli esistenziali, registrava le contraddizioni, ricercava l’identità e spesso sbatteva contro le stalattiti del nonsipuotismo, delle false partenze, delle illusioni e delle traumatiche disillusioni. Non domo nella sua lunga vita ha continuato nell’impresa, almeno di provarci, di dipanare quella amata matassa che porta il nome di Napoli, la città mamma.
Raffaele ‘Dudù’ La Capria se ne è andato – a pochi mesi dai cent’anni che avrebbe compiuto il prossimo 3 ottobre – tentando, fino al suo ultimo respiro, di svelare i misteri e illuminare le ombre di una città sempre e solo amata. Napoli è stata la sua ossessione distaccata, il tormento sereno, l’emozione equilibrata, insomma, la città che ti insegue. Non è casuale se ha sentito l’esigenza, il bisogno di congedarsi da lei con il libro Napoli è Napoli, scritto con Silvio Perrella con le fotografie di Lorenzo Capellini (edizioni Minerva). Un testo che, pochi giorni fa, è stato presentato a Palazzo Donn’Anna, quartiere Posillipo, dove tutto è cominciato. È ancora una dichiarazione di amore, questa volta, destinata all’eterno: “Sotto le amene apparenze Napoli è stata sempre, per me, Natura primordiale e indomabile in contrasto con una plurisecolare Storia irredimibile; e questo contrasto è assurto in me a valore di simbolo, è una chiave interpretativa per capire meglio la città, e il mio rapporto con essa”.
Raffaele La Capria voleva capire, comprendere, svelare, trasmettere le emozioni, quelle più segrete e difficili da rappresentare. L’unica certezza che ha sempre avuto è praticare il distacco, la distanza dalla città, la freddezza, il calcolo, la traduzione in scrittura di quelle precise immagini mentali sui fatti. Il suo è stato un metodo rigoroso. Un approccio di verità. Uno specchio crudo che scava dietro le immagini da cartolina portando fuori la filigrana nascosta. Il suo capolavoro letterario è stato senz’altro Ferito a morte (Bompiani, poi Mondadori), un romanzo forte, lucido, temerario, con cui vinse il premio Strega nel 1961; ma soprattutto lanciò un messaggio alla classe dirigente del Paese che, visto i disastri presenti, nessuno ha mai raccolto.
La sua grande capacità d’analisi, riflessione e preveggenza la si trova, qualche anno dopo, nel film Le Mani sulla Città, con cui insieme al suo amico regista Francesco Rosi, che lo aveva diretto nel 1963, La Capria si aggiudicò da sceneggiatore il Leone d’Oro al Festival del cinema di Venezia.
Guardare e vedere dentro, da vicino il nuovo potere, la sua natura predatoria, i comitati d’affari, le connessioni con entità, la camorra e non solo, che in seguito diventerà ‘sistema’. E poi la devastazione del territorio, le colate di cemento, la deturpazione dei quartieri, la violenza culturale dello sradicamento della popolazione, la distruzione delle radici, la crescita delle diseguaglianze, le due Napoli e la borghesia accattona. E ancora la debolezza della politica e in generale di una classe dirigente non all’altezza, che non è riuscita, allora come oggi, ad accompagnare i processi di trasformazione perché incapace di costruire il futuro. Solo un’anteprima di ciò che accadrà con la ricostruzione del dopo terremoto del 23 novembre del 1980 e il salto di qualità della camorra in holding.
Lo sguardo di La Capria è stato sempre puntato su Napoli con il suo tentativo di comprendere le cause della decadenza civile, di scoprire l’alchimia delle contraddizioni. L’opera saggistica più acuta e originale è L’armonia perduta (Mondadori, 1986). La sua scomparsa anche simbolicamente chiude un’epoca di una generazione: Antonio Ghirelli, Tommaso Giglio, Massimo Caprara e Maurizio Barendson, Francesco Rosi, Giuseppe Patroni Griffi, Francesco Compagna e Giorgio Napolitano. La meglio gioventù con idee, passioni, convincimenti, ideali, valori, slanci.
Oggi Napoli si ritrova più povera, più impaurita e piegata sul suo decadente presente. Una città eternamente ‘ferita a morte’ che non sa più ripartire e neppure scrutare all’orizzonte un futuro possibile. Guai a dirlo, guai a scriverlo oppure raccontarlo. La Capria, l’intellettuale vero, lascia il suo testamento ai napoletani e a Napoli, una città ‘ferita a morte’ da amare contro ogni ragionevole dubbio.