di Marco Bella e Virginia Raggi, ex sindaca di Roma
Un recentissimo articolo sul blog di Beppe Grillo ha fornito uno spunto interessante su alternative moderne e sostenibili alla costruzione di un mega inceneritore per Roma. La chiusura del ciclo dei rifiuti è un tema di cui si dibatte molto, soprattutto quando, a causa del deficit impiantistico, i rifiuti rimangono in terra nelle città, sono visibili, maleodoranti e creano malcontento e disagi.
La soluzione proposta in modo prevalente è quella del “termovalorizzatore” (neologismo coniato anni fa per rendere più tollerabile il termine “inceneritore”) che brucia i rifiuti ricavando, tuttavia, una minima percentuale di energia e produce anche ceneri e inquinanti volatili.
Il processo di combustione è rimasto sostanzialmente immutato negli ultimi 30 mila anni. Si bruciano dei materiali trasformandoli in cenere, fumi, acqua e anidride carbonica che, come è noto, è un gas climalterante, ossia contribuisce all’effetto serra. La fiamma, che tutti conosciamo, ha diversi colori perché la combustione avviene a temperature diverse in punti diversi del combustibile e perché produce polveri sottili, visibili ad occhio nudo e alla temperatura di fiamma, insieme a una miriade di composti chimici. Tra questi ci sono le diossine, che non sono una sola molecola ma una classe di composti.
Oggi, tuttavia, a differenza di 30mila anni fa, la tecnologia fa passi da gigante e molti scienziati, chimici, fisici, ricercatori e aziende sperimentano soluzioni innovative che possano davvero chiudere il ciclo dei rifiuti. Tra queste, troviamo l’ossicombustione che può essere applicata in tanti campi inclusi i rifiuti (si veda ad esempio un articolo scientifico qui). In questo nuovo processo le sostanze non vengono “bruciate” nel senso in cui lo intendiamo. Per prima cosa, il processo di combustione non avviene in atmosfera di aria (come negli inceneritori) ma in presenza di solo ossigeno (prodotto nell’impianto), ad una pressione di 5-6 bar e ad una temperatura di circa 1430°C. In queste condizioni si parla di un processo “senza fiamma”, perché a differenza della combustione la “fiamma” è incolore, in quanto non c’è produzione di particolato e sostanze solide (vedi figura).
Così, le sostanze organiche sono ossidate totalmente (bruciate con l’ossigeno) producendo, per quanto riguarda le sostanze organiche, anidride carbonica e acqua e, per le sostanze inorganiche, un materiale che è a tutti gli effetti vetro.
Mentre l’incenerimento produce ceneri tossiche (poiché composte dal residuo di tutti i materiali conferiti nell’impianto) e fumi inquinanti (anche qui, di cui si disconosce l’esatta composizione per quello che si diceva sopra), l’ossicombustione produce invece anidride carbonica pulita e materiale vetroso inerte che può essere utilizzato ad esempio come materiale da costruzione.
La cenere prodotta degli inceneritori è un materiale insidioso che può rilasciare facilmente i metalli o altre sostanze organiche nocive in esso contenute e infatti deve essere smaltita in discariche speciali. Al contrario, il vetro da ossicombustione è un materiale chimicamente inerte. Come esempio si pensi al bicchiere di cristallo che tutti abbiamo a casa e tiriamo fuori per le grandi occasioni: forse non tutti sanno che è composto da vetro e fino al 40% in peso di ossido di piombo. Quando si rompe si frantumerà eventualmente in altri mille pezzi; tuttavia, non rilascerà i metalli che ha intrappolato se non nel giro di millenni.
Proprio perché il vetro è inerte, i recipienti nei laboratori chimici sono tutti fatti di vetro, che resiste ad acidi concentrati e altre sostanze anche molto corrosive. Per attaccare il vetro servono condizioni davvero particolari (idrossido di sodio molto concentrato, acido fluoridrico) che non si realizzano in natura ma solo in laboratorio.
Parliamo adesso dei fumi, che sono l’aspetto più problematico degli inceneritori. Buona parte dell’impianto di incenerimento è costituita da sistemi di abbattimento degli inquinanti prodotti nei fumi, come diossine, ceneri volatili e ossidi di azoto. I filtri, più o meno complessi, intrappolano solo una parte degli inquinanti presenti nei fumi e diventano anche loro un rifiuto speciale, per il quale non c’è davvero altro utilizzo se non una discarica speciale. Al contrario, gli impianti di ossicombustione non hanno nemmeno un camino perché sono impianti “chiusi”. Le sostanze volatili prodotte sono solo anidride carbonica e acqua. L’acqua si condensa e riutilizza nel processo; l’anidride carbonica, essendo particolarmente pura a differenza di quella degli inceneritori, si immagazzina in bombole e viene venduta. Teniamo presente che per quando assurdo possa sembrare, l’anidride carbonica per uso industriale (usata ad esempio negli estintori, come ghiaccio secco, nelle serre e come gas inerte per conservare gli alimenti) si produce bruciando combustibili fossili e ha un prezzo sul mercato di circa 100 euro per tonnellata.
Infine, gli impianti di ossicombustione sono piccoli: uno da 15 megawatt tratta 50-100.000 tonnellate di rifiuti l’anno, costa circa 40-50 milioni, si costruisce nel giro di un paio di anni e costa meno rispetto agli inceneritori, che per funzionare con un minimo di efficacia hanno bisogno di trattare grandi volumi. Un inceneritore con recupero di energia può costare invece centinaia di milioni: quello di Copenaghen (500.000 ton/rifiuti anno) è costato quasi 700 milioni. In ogni caso, bruciamo i rifiuti per liberarcene piuttosto che per ricavare energia, che è un risultato utile, limitato e comunque secondario: bruciando tutte le 30 milioni di tonnellate di rifiuti italiani prodotti ogni anno, forse produrremmo solo il 4% dell’energia di cui necessitiamo.
Inoltre, ripetiamo, mentre l’impianto di ossicombustione reimmette nel ciclo produttivo tutto ciò che si ricava alla fine del processo, perché vende sia l’anidride carbonica che la pasta vetrosa, l’inceneritore (o termovalorizzatore) ha ancora bisogno di discariche speciali per contenere le ceneri tossiche e i filtri sporchi. Semplicemente, non chiude il ciclo dei rifiuti!
Quella dell’ossicombustione è una nuova tecnologia davvero promettente, validata da un impianto dimostrativo da 5 Megawatt a Gioia del Colle, anche se al momento non c’è ancora alle spalle una ampia casistica di impiego. Occorre però riflettere sulle nostre esigenze e su come questa tecnologia potrebbe soddisfarle in modo ottimale e con un opportuno progetto industriale per la città.
Giusto segnalare anche delle potenziali criticità. Per raggiungere la temperatura di 1430°C a cui si innesca il processo di ossicombustione, c’è comunque una fase di avviamento. In questa fase (circa 30 ore) l’impianto deve essere alimentato con metano o gasolio. La produzione di energia dai rifiuti, dedotta la quantità auto-consumata per produrre l’ossigeno e per recuperare l’anidride carbonica, è minore rispetto a quella da un cosiddetto “termovalorizzatore”, ma lo scopo di questi impianti è piuttosto di eliminare quella frazione di rifiuti che non si riesce a ridurre, riusare e riciclare, piuttosto che produrre energia.
Insomma: questa tecnologia sembra davvero promettente e andrebbe valutata, piuttosto che sposarne senza se e senza ma una vecchia – come si vorrebbe fare a Roma – come gli inceneritori che già sappiamo avere limiti ambientali enormi. Per questo invitiamo gli scienziati, i cittadini e i decisori politici ad approfondire il processo di ossicombustione, che può rappresentare il futuro rispetto all’incenerimento che è invece il passato. Meglio camminare un po’ più lentamente nella direzione giusta piuttosto che correre sulla strada che sappiamo essere sbagliata, cioè la strada degli inceneritori, l’esatto contrario della transizione ecologica.