Le “raccomandazioni” fatte dal Consiglio Europeo all’Italia, il 23 maggio scorso, non debbono essere prese sottogamba dalla politica italiana perché non sono un fatto burocratico né sollevano argomenti di mera routine. Impongono, infatti, il raggiungimento di risultati concreti nel breve periodo e, nel medio, di avviare a soluzione problemi strutturali endemici. Il fine ultimo per tutti? Far crescere l’Italia affinché diventi un Paese membro “normale” non più sottoposto, dunque, a “controllo speciale”.
Le raccomandazioni riguardano il Programma Nazionale di Riforma 2022 e quello di Stabilità e si focalizzano sui provvedimenti che l’Italia deve attivare nel biennio 2022-2023. Che si raccomanda?
1) di attuare una politica di bilancio “prudente”, cioè con meno spesa pubblica corrente e più investimenti (per la transizione verde e digitale e per la sicurezza energetica);
2) di ridurre il debito pubblico consolidato a partire dal 2024 quando, cioè, verrà reintrodotto il rispetto dei vincoli di bilancio sospesi per il triennio 2021-2023;
3) di ridurre le imposte sul lavoro;
4) di adeguare i valori catastali a quelli di mercato;
5) di ridurre la farraginosità del codice tributario;
6) di ridurre la dipendenza dai combustibili fossili e diversificare le importazioni di energia.
Provvedimenti da assumere per cogliere tutte le opportunità offerte dalla strategia “Next Generation-EU” che ha cancellato la fallimentare “Austerità Espansiva” precedente. Figlia, quest’ultima, di un malefico neo-liberismo che ha fatto precipitare la UE dal primo al terzo posto delle più importanti macro-aree mondiali (dopo USA e Cina) e l’Italia nella decrescita infelice (ahinoi!).
Che dire di tali provvedimenti? Che sono tutti doverosi e di buon senso, ma che non bastano. Non affrontano – non è compito del Consiglio Europeo – il tema centrale italiano: la causa della decrescita economica e la messa a punto di una strategia per il suo superamento. Da scongiurare che la politica nazionale e le forze sociali pensino di ridurre il debito pubblico italiano come si è fatto negli ultimi 20 anni. Sarebbe diabolico ricadere nell’errore di “tagliare” la spesa pubblica per il welfare e i dipendenti pubblici impegnati nell’erogazione dei servizi connessi (sanità, scuola, Welfare comunale, sicurezza, ecc.). Il debito pubblico, infatti, deve essere ridotto nel modo realizzato da tutti gli altri paesi comunitari: con la crescita del Pil, cioè dell’economia. (Ricordiamoci, infatti, che non è il valore assoluto del debito ma il rapporto che esce dal rapporto tra debito e Pil ad essere vigilato dalla politica comunitaria).
Nella strategia di ripartenza e resilienza, tuttavia, c’è un convitato di pietra: il mondo della media e grande impresa. Un convitato incapace di esprimere un progetto di rilancio industriale idoneo a fronteggiare la decrescita. Tutte le economie più avanzate, invece, sono trainate da due cavalli, uno pubblico ed uno privato ed è essenziale che tutti e due si esprimano al meglio. Non c’è futuro migliore per l’Italia se il primo diventa un pony ed il secondo un ronzino, perché non vi sarà speranza di competere con le altre economie né di avere redditi e welfare dignitosi. E a pagarne le conseguenze più severe sarà la Next Generation-Italy, cioè i nostri figli e nipoti. I rappresentanti della grande e media impresa non possono pensare di “tirare a campare” solo grazie ai vari superbonus, al basso costo del lavoro immigrato, alla turbo-flessibilità dei nostri giovani o, infine, a nuovi ristori, magari finanziati dal taglio del reddito di cittadinanza. Il punto cruciale della questione, insomma, è che il rapporto debito pubblico/Pil è alto perché l’economia è sempre più nana.
Una proposta per un “rinascimento” imprenditoriale nostrano? La costituzione, in forma di società, dell’”Istituto per la Ripresa e la Resilienza Italiana” (IRRI). La sua missione? Promuovere partenariati nazionali ed internazionali per far crescere le nostre imprese e la ricerca di investitori esteri, privati ed istituzionali interessati ad investimenti nel settore produttivo che creino occupazione qualificata. Una sorta di super-IRI adeguato ai tempi ma anche duraturo perché indipendente dagli sbalzi di umore della politica al potere.