Un’eventuale “pace fiscale” porterebbe alle casse dello Stato una somma ben inferiore all’ammontare teorico. Cancellare i crediti non più esigibili sarebbe l’unica soluzione, ma neanche la legge delega di riforma fiscale affronta la questione.

di Tommaso Di Tanno (Fonte: www.lavoce.info)

Nessuna “guerra fiscale” in corso

Si torna a parlare di “pace fiscale” come se vi fosse, sul fisco, una guerra in corso. Fortunatamente, non è così. Col fisco, come sempre, sono in posizione “guardinga” tutti coloro che non pagano il tributo attraverso ritenute operate da terzi – quindi i titolari di redditi da lavoro autonomo e d’impresa; mentre restano in posizione “rassegnata” coloro che vedono solo il netto, dopo quanto trattenuto dal terzo con cui hanno a che fare (cioè, in sostanza, lavoratori dipendenti e pensionati).

Ci sono poi i titolari di redditi finanziari che, se passivi, ricevono un importo netto di imposte prelevate alla fonte (ancorché in forma forfettaria) e non si differenziano particolarmente dai titolari di reddito di lavoro dipendente. Se attivi (verrebbe da dire: “attivisti”), si trovano in situazioni analoghe a quelle degli autonomi (e forse con spinte centrifughe anche più decise).

È una situazione che richiede ripensamenti e correttivi, come si tenta di fare con la legge delega per la riforma tributaria, dopo una fin troppo lunga e poco proficua mediazione in Commissione parlamentare, ma che non presenta i caratteri di drammaticità che definiscono una guerra vera. È, quindi, inappropriato parlare di “pace fiscale”, si potrebbe parlare invece di “definizione premiale del contenzioso in corso”.

Una montagna di crediti solo teorici

I pruriti pacifisti nascono dalla constatazione che nei conti dello stato risultano contabilizzati ben 1.100 miliardi di euro di crediti d’imposta. Basterebbe portarne a casa un modesto 2 per cento e, voilà, con 22 miliardi si potrebbero realizzare tanti proficui interventi. Al tempo stesso, si lascerebbe in pace un sacco di gente alle prese con annose e irrisolte posizioni contenziose col fisco. Insomma, una vera e propria epifania, con un finale abbraccio fra rappresentanti della collettività (i funzionari del fisco) e masse di cittadini che, per sfortunata coincidenza, si sono scoperti, nel corso del tempo, debitori di un qualche tributo o di una qualche contravvenzione.

Sennonché il direttore dell’Agenzia delle Entrate ha più volte riferito, anche in sedi parlamentari, che la montagna vertiginosa dei crediti d’imposta – la mostruosa cifra di 1.100 miliardi di euro – non può considerarsi suscettibile di azione riscossiva per intero, ma per un importo dell’ordine di (soli) 81 miliardi. E quest’ultima è una somma che contiene un miscuglio di crediti consolidati (cioè non più oggetto di contestazione) e di crediti che nascono da azioni riscossive solo provvisorie perché la debenza del tributo è ancora in discussione. Gli altri mille e più miliardi sono solo frutto della resilienza del sistema di cancellazione delle posizioni creditizie inesigibili e non di un concreto – ancorché difficoltoso – ammontare ragionevolmente aggredibile. Si tratta, infatti, di posizioni riconducibili a contribuenti deceduti o falliti o non più reperibili (per cambiamento di residenza) o effettivamente nullatenenti (e quindi non più proficuamente aggredibili). L’unico intervento che ha senso nei riguardi di questo enorme ammontare di teorici crediti è la loro cancellazione e il conseguente sgravio di responsabilità dell’entità giuridica addetta alla relativa riscossione (perlopiù Agenzia delle Entrate-Riscossione).

Sul punto ci si aspettava un più coraggioso intervento in sede di redazione della legge delega per la riforma tributaria; ma l’articolo 8 della proposta non contiene riferimenti alla problematica e, nonostante le accese discussioni che hanno accompagnato la riformulazione della delega, l’argomento resta ancora fuori discussione. Non solo: si potevano ipotizzare forme di snellimento e modernizzazione nella gestione dei crediti d’imposta distinguendo, in particolare, quelli di maggiore importo da quelli più insignificanti, con la possibilità di cedere questi ultimi a terzi riscossori, così da consentire all’Agenzia delle Entrate di concentrarsi sui primi. E si poteva altresì ipotizzare la formazione di una sorta di rating per il debitore fedele, con la possibilità di attribuirgli qualche vantaggio che ne differenziasse la posizione rispetto al debitore infedele. Ma nella legge delega non c’è nulla di tutto questo.

Su un diverso binario procede, però, la riforma del contenzioso tributario. L’intervento mira, da un lato, a migliorare la qualità del giudicato, elevando la qualità e l’organizzazione degli organi giudicanti. Dall’altro, a snellire la quantità dei giudicati, introducendo forme conciliatorie oggi non presenti o che, se presenti, hanno mostrato di non funzionare. Su questo terreno ha senso uno sforzo di fantasia finalizzato a un “accordo fiscale” più che a una pace al ribasso. Del resto, anche in passato non sono mancati gli interventi finalizzati alla riduzione del contenzioso. E sarebbe sensato, quindi, riproporli oggi. I volumi di cassa che ne potrebbero derivare sono da valutare, ma mi sentirei di escludere si possano raggiungere i sognati 22 miliardi di euro.

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