di Irene Muscato – docente
I ragazzi stanno male. E anche i bambini. Difficoltà relazionali, ansia, attacchi di panico sono solo alcune delle manifestazioni di questo disagio. Ogni giorno i docenti di tutte le scuole d’Italia entrano in contatto con studenti di ogni età che stanno attraversando una fase di profonda sofferenza. È innegabile, come è innegabile che neanche prima della pandemia tutto andasse bene.
Ormai da anni il mondo della scuola è testimone dell’aumento esponenziale delle richieste d’aiuto da parte di alunni di tutte le età. Sono deboli? Troppo viziati? Sono peggiori di noi?
Non credo proprio. Ipotesi di questo tipo servono solo a chi vuole deresponsabilizzarsi, individuando come causa del malessere l’incapacità di bambini e adolescenti di reagire e di essere resilienti (aggettivo troppo spesso usato come invito ad adeguarsi al sistema). I nostri studenti sono migliori di noi e il loro malessere ne è la prova. È la protesta contro un sistema sociale che non va bene. Ed è, ad oggi, l’unica in atto nel contesto di assuefazione generale.
In questo quadro di complessità, noi docenti dobbiamo far fronte a un numero altissimo di richieste, gestendo un carico di lavoro che solo chi fa questo mestiere può comprendere. Occorre:
– studiare (sempre) per preparare le proprie lezioni;
– selezionare, e spesso inventare, strategie didattiche adatte ai propri alunni;
– correggere i compiti, individuando punti di forza e di debolezza a partire dai quali riprogrammare il lavoro da svolgere;
– valutare (processo che non coincide con il calcolo della media dei singoli voti, ma che richiede competenze specifiche, tempo e profonda riflessione);
– contribuire alla creazione di uno spazio relazionale sano, basato sull’ascolto e sul confronto sereno;
– gestire il carico emotivo dei propri studenti, dedicando loro del tempo anche oltre l’orario delle lezioni, intercettando soluzioni, interloquendo con famiglie, assistenti sociali, psicologi, centri per il supporto allo studio, ecc.;
– curare i rapporti con i genitori, instaurando relazioni improntate alla chiarezza e alla collaborazione, nella consapevolezza della diversità di compiti e ruoli.
E poi bisogna fare lezione. La punta di un iceberg che rappresenta solo una piccola percentuale del nostro lavoro. L’unica visibile o, meglio, l’unica che si vuole che sia visibile agli occhi dei non addetti ai lavori.
A quanto elencato vanno aggiunte le attività connesse all’insegnamento: riunioni, Collegi dei Docenti, incontri scuola-famiglia, ecc. nonché i compiti burocratici che si sono triplicati sotto la spinta dell’emergenza pandemica e che ingrossano le fila del lavoro sommerso.
Per orientarsi in un quadro di complessità così ampio, è chiaro che aggiornamento e formazione sono fondamentali. E i docenti se ne occupano da sempre, da ancor prima che la legge 107/2015, introducesse questo concetto come “rivoluzionario”. Ci aggiorniamo perché ogni giorno siamo in contatto con il mondo che cambia e sappiamo che cosa ci occorre per aiutare i nostri alunni, consapevoli che ciò che è necessario in un determinato contesto classe non è detto che lo sia in un altro. I bisogni della scuola possono essere esplicitati solo da chi la scuola la conosce e la vive entrando in aula ogni giorno.
È, dunque, una buona notizia che il governo si interessi alla formazione e voglia finanziarla. Ma di quale formazione si tratta? Tramite quale iter si è pervenuti all’ideazione del nuovo sistema? E, soprattutto, chi ne paga il prezzo?
Il sistema di “formazione continua incentivata” (art. 44, DL 36/2022) prevede l’Istituzione di una Scuola di alta formazione che avrà il compito di promuovere e coordinare la formazione in servizio dei docenti di ruolo, avvalendosi dell’Indire e dell’Invalsi per lo svolgimento delle sue attività e sarà dotata di autonomia amministrativa e contabile.
Si avvieranno percorsi di formazione triennale con verifiche intermedie annuali nonché una verifica finale che i docenti di ruolo sosterranno dinanzi a un comitato per la valutazione dei docenti (art. 11, DL 297/1994), integrato, nella fase di verifica finale, da un dirigente tecnico o da un dirigente scolastico di un altro Istituto. I contenuti della formazione saranno definiti dalla Scuola di alta formazione, Ente in cui non potrà essere impiegato, a qualunque titolo, personale docente del comparto Scuola. Quindi gli insegnanti, gli unici che conoscono nel dettaglio ciò che serve alla scuola, non avranno voce in capitolo nella partita che decide della loro formazione e del tempo extracurricolare che dovranno dedicarvi.
Ogni docente sa bene quanti corsi di formazione gestititi da Enti di tutto rispetto si sono rivelati nella sostanza inutili, perché avulsi dal contesto scuola. Ed è un’assurdità il fatto che si affidi la nostra formazione a chi la scuola non la vive, senza ipotizzare alcuna forma di collaborazione in fase di progettazione delle attività e di erogazione dei corsi.
Ancor più assurdo è che si pervenga a tale riforma tramite decreto legge, bypassando il confronto con i sindacati e negando al Parlamento la possibilità di discuterne dedicandovi l’attenzione e il tempo necessari. Questa trasformazione inciderà pesantemente sulla professione docente, ridurrà la libertà degli insegnanti di scegliere gli ambiti della propria formazione e il meccanismo della valutazione creerà sistemi di controllo e competizione interni che di certo non portano buoni frutti in una comunità educante.
Tali sistemi, già caldeggiati dalla legge 107/2015, sono nocivi per la scuola, ambito in cui i valori che devono stare alla base della relazione tra pari e con i Presidi (oggi, non a caso, chiamati Dirigenti) sono la collaborazione, la condivisione, il sostegno reciproco, la libera espressione del proprio pensiero, l’impossibilità di essere soggetti a ricatto.
Il fatto che si sia agito tramite decreto ha limitato ogni forma di opposizione seria. In seguito allo sciopero del 30 maggio, il14 giugno, tramite comunicato unitario, FLC CGIL, CISL, UIL, SNALS e GILDA hanno chiesto lo stralcio della parte del decreto relativa alla formazione in servizio, ma le loro richieste sono state ignorate e gli emendamenti successivi, di fatto, non hanno risolto i problemi.
L’ultima ma più importante questione su cui riflettere è quella dei finanziamenti. Il decreto 36/2022 è relativo al Pnrr, ma solo una piccola parte di tali fondi è destinata al comparto Scuola. Per l’istituzione del nuovo sistema di formazione i fondi saranno ricavati dalla scuola stessa, proverranno dai tagli alle cattedre preventivati alla luce dei dati relativi al futuro calo demografico.
Da anni il mondo della scuola chiede la riduzione del numero di alunni per classe. La pandemia ha reso noto a quanti ne erano all’oscuro che i nostri alunni sono stipati dentro classi pollaio e adesso, di fronte alla previsione di un calo di nascite, anziché rendere finalmente la scuola italiana democratica, si pensa a far nascere una Scuola di alta formazione di cui nessuno sente il bisogno?
È un latrocinio ai danni dei nostri studenti. È un colpo mortale alla scuola italiana, una scuola che si regge sulla professionalità e l’abnegazione di un corpo docente che va messo nelle condizioni di occuparsi dell’unica cosa che conta: la formazione umana e intellettuale degli alunni. Finché ci sarà una media così elevata di studenti per classe, farlo in maniera davvero efficace sarà impossibile e chi dice che lo si può fare mente o non ha mai messo piede in una classe.
Il 29 giugno il decreto sarà convertito in legge. Mi sono opposta scioperando, informandomi e informando. Il governo va dritto per la sua strada, ma non ha il mio assenso né quello di tantissimi colleghi. La scuola ha bisogno di una riforma che investa nella scuola e non nella Scuola (di alta formazione). Dissentire è necessario anche dopo l’approvazione del decreto. Lo dobbiamo a noi stessi, ma soprattutto ai nostri alunni e alle loro famiglie.
Che non si parli di futuro in un Paese che maltratta così le sue migliori risorse.