Si dichiara innocente Marco Bianchi, il giovane per cui il pubblico ministero ha chiesto l’ergastolo per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte. “Ho toccato il fondo. Ecco la vostra soddisfazione. È una cosa che non auguro a nessuno, la sensazione di essere da soli, al buio. Sono andato giù, ma oggi ho deciso di rialzarmi e combattere per la verità e per la vita”, ha scritto Bianchi in una lettera inviata dal carcere di Viterbo all’agenzia Adnkronos. Così accusa i giornalisti di aver detto falsità sul suo conto, ma soprattutto si rivolge alla madre di Willy e sostiene di non c’entrare niente con la morte del 21enne: “Sono vittima di un processo mediatico, il vero colpevole” (si riferisce a Francesco Belleggia) “è ancora tranquillo a casa sua”.
La tragedia si è consumata a Colleferro, la notte del 6 settembre 2020. Sotto accusa ci sono Bianchi, suo fratello Gabriele (per cui è stato chiesto l’ergastolo) e altri due uomini Mario Pincarelli e Francesco Belleggia (per loro sono stati chiesti “soltanto” 24 anni di reclusione). In vista della sentenza, attesa per il prossimo 4 luglio in Corte d’Assise a Frosinone, Bianchi ha deciso di farsi sentire: “Sia io che Gabriele continueremo sempre, da uomini veri, a dire che non c’entriamo nulla con questo crimine”. “Non siamo degli psicopatici che negano davanti all’evidenza e prima o poi la verità uscirà fuori. C’è una grande differenza tra farsi la galera da colpevoli e farsela da innocenti. E quando tutto questo finirà, se ci sarà la possibilità di incontrarmi un giorno, rimarrete a bocca aperta stupiti, capendo che non siamo le brutte persone descritte dai media: quel ragazzo non è morto per mano nostra. L’ho messo in chiaro in aula, davanti al giudice, guardando in faccia la povera madre di Willy”. ha aggiunto.
Nella lettera Marco Bianchi si rivolge direttamente alla madre della vittima, Lucia Monteiro: “Signora mia ogni volta che ho la possibilità di guardarla” la donna è stata sempre presente alle udienze “vedo il dolore e l’odio che può provare per chi le ha portato via suo figlio. È lo stesso sentimento che leggo negli occhi di mia madre, che è morta dentro e prova rancore per il vero colpevole, il bugiardo che ha rinchiuso i suoi figli in carcere al suo posto, per un crimine che non hanno commesso. Signora, io la guarderei come guardo mia madre. Se io e mio fratello fossimo gli artefici della morte di suo figlio, mai ci saremmo permessi di sostenere il suo sguardo come abbiamo fatto durante il processo, di guardarla come se guardassimo nostra madre. Non ci saremo mai permessi di negare le nostre responsabilità per tornare liberi: io, personalmente, mi sarei sentito sporco e infame”. Sostiene di aver detto fin da subito la verità l’ho detta subito, dichiarando di aver colpito Willy con “Una spinta e un calcio, ma solo per allontanarlo dal mio amico Omar” (Shabani, sentito in aula come testimone). “L’ho colpito al fianco, tanto è vero che non ha nemmeno fatto in tempo a cadere che si è subito rialzato” ha concluso.
Nelle lettera di sette pagine trova lo spazio per parlare dell’Mma, lo sport che praticava insieme al fratello: “Non mi sarei mai permesso di infierire con le responsabilità che derivano dallo sport che sia io che mio fratello praticavamo. A noi la Mma ha insegnato ad essere uomini, ad avere il controllo di noi stessi e ad essere sempre lucidi nelle azioni che commettiamo. Lo sport non ci ha insegnato certo ad essere assassini, al contrario ad essere responsabili, ad avere il pieno controllo della nostra forza”.