Ventimila soldati americani in più sul suolo europeo, concentrati in Italia e Germania. Il presidente Biden in persona ha annunciato un potenziamento delle forze in termini di uomini e mezzi. Nel pomeriggio il Pentagono precisa che gli Stati Uniti invieranno in Italia un battaglione per la “difesa aerea a corto raggio” composto da 65 militari. Un’unità subordinata al battaglione per la difesa aerea a corto raggio stanziato in Germania. Non si sa, a questo punto, se sia il numero totale di soldati o solo il primo contingente di altri Al di là dei numeri la notizia in sé è rilevante, specie in un Paese dove il tema delle forniture d’armi e della subalternità alle decisioni di Washington ha mandato in fibrillazione la politica. Non per nulla il capo del governo Mario Draghi da Madrid ha subito precisato: “Mi viene descritto dal ministro della Difesa come un assestamento già in programma”, ammettendo però che “certo, il sistema di difesa aerea deve rafforzare il fianco orientale del’Alleanza”. Ad ogni modo, “non c’e’ il rischio di un’escalation: bisogna essere pronti ma a oggi non vediamo il rischio di un’escalation”.
La decisione della Casa Bianca è comunque un primo effetto concreto della “nuova dottrina Nato” che si sta mettendo a punto a Madrid, in risposta alla minaccia. Si tratta di capire le modalità. L’Italia, come il resto d’Europa, ha già una presenza significativa di basi (oggi sono 10) e di uomini (meno di 15mila), ma come tutti i Paesi d’Europa ha visto ridurre i contingenti a stelle strisce ai minimi termini a partire dalla seconda metà del Novecento, dalla Guerra Fredda in poi, con alcuni rinforzi “mirati” dopo l’11 settembre 2001 o nel 2017, quando Sigonella fece da base per le operazioni atlantiche dell’Alliance ground surveillance, il programma che tramite radar e droni fornisce dati in tempo reale ai paesi membri dell’alleanza e protezione mantenendo il controllo aereo delle frontiere e la sicurezza in mare. E’ da qui, per altro, che partono i droni Global Hawk che sorvolano i confini dell’Ucraina e controllano lo spostamento di truppe russe, da qui che si possono lanciare i droni Reaper impiegati già in Iraq. Insomma, questa insieme ad Aviano e Camp Derby sembra una delle basi candidate al rinforzo.
“La decisione risponde a esigenze diverse”, spiega l’ex generale Vincenzo Camporini che durante la Guerra Fredda guidava le truppe Nato nelle esercitazioni in Norvegia e Turchia in funzione di deterrenza nei confronti della Russia. “Intanto risponde a un’esigenza di rafforzamento difensivo del nostro territorio, perché non vanno dimenticate le minacce di Mosca all’Italia così come il fatto che Trieste è più vicina a Kiev che a Palermo, insomma, il conflitto è davvero vicino ai nostri confini”. Il rafforzamento non guarda solo alla prontezza immediata rispetto alla minaccia russa, ma ha anche un significato simbolico. “Serve per far capire a Putin che l’alleanza non si è divisa e non è rimasta inerte ma anzi si è rinsaldata, e questa sicuramente è per lui una grande sconfitta e un problema con cui la Russia, sempre più isolata, dovrà fare a lungo i conti”. Serve anche alla Nato, dice il generale. “Il rafforzamento non guarda solo a Est ma serve anche a rinsaldare l’area del sud e del Mediterraneo che è un’area critica anche dal punto di vista militare, perché non è un mistero che vi si affaccino le forze navali russe come durante la Guerra Fredda, con flotte e sommergibili capaci di lanciare attacchi convenzionali. Non solo, parlando di guerra ibrida noi che viviamo nel Mediterraneo sappiamo bene che l’area è critica per fenomeni che chiamano in causa la sicurezza e le frontiere territoriali, perché subiamo i riflessi delle migrazioni più o meno indotte, abbiamo il problema del rifornimento alimentare ed energetico. Insomma, il Mediterraneo è un’area estremamente critica ed è importante farlo capire agli altri Paesi dell’alleanza che non essendo rivieraschi non la considerano tale”.
Nelle prossime settimane si saprà di più del rafforzamento annunciato, e non mancheranno probabilmente reazioni insofferenti per la presenza americana nelle nostre basi. “Ne sono certo, ma tecnicamente non cambia assolutamente nulla. Mi spiego. Se arrivano più forze della Nato sul nostro territorio le regole restano quelle di sempre, per cui l’impiego delle forze di un altro Paese dal nostro territorio è vincolato al fatto che ci sia un’operazione di tipo Nato con l’etichetta Nato. Tant’è che ci furono riserve molto concrete ed esplicite all’epoca dell’invasione dell’Iraq nel 2003 perché non si trattava di un’operazione Nato e le forze americane non potevano essere mandate in combattimento partendo dal territorio italiano. E’ una regola aurea dell’impiego. Non vedo cosa cambi in linea di principio se non una capacità maggiore di fare deterrenza”.