Oltre l’ottanta per cento dell’accoglienza dei profughi ucraini è ancora sulle spalle dei privati. A quattro mesi dall’inizio del conflitto, mentre gli arrivi registrati alle frontiere toccano quota 140 mila, in Italia le cose non funzionano. Lo denunciano comuni, parrocchie, famiglie e tanti enti del terzo settore che da subito si sono caricati dei costi dell’emergenza e che tuttora li sostengono senza ricevere un soldo dallo Stato, nonostante le promesse e i fondi messi in campo dal governo. “Le famiglie ospitali che hanno aperto le loro case ai profughi non hanno ancora avuto nulla, molte sono arrabbiate e si sentono abbandonate dalle istituzioni”, spiega Fabiana Musicco, fondatrice e direttrice di Refugees Welcome che segue l’accoglienza privata di 350 ucraini. Di cortocircuiti ce n’è più d’uno, a partire dal bando della Protezione civile sull’accoglienza diffusa scaduto ad aprile, rallentato da una burocrazia che spreca milioni di euro e frustra i profughi che spesso si rimettono in viaggio verso la Polonia, altri paesi Ue o la stessa Ucraina. Come non bastasse, dal bando sono stati esclusi i posti offerti dal terzo settore in Sicilia, Calabria e Basilicata, tuttora inaccessibili nonostante l’urgenza. “Ci sono comuni, parrocchie, famiglie che non riescono più a sostenere i costi dell’ospitalità offerta, che non possiamo sgravare perché nessuno ci autorizza a usare gli alloggi che pure già abbiamo a disposizione”, racconta Paolo Pesacane di Arci Basilicata, dove capita che gli enti paghino spese e affitto per alloggi che non possono assegnare. Col cerino in mano resta proprio quell’Italia solidale che nei mesi scorsi si è guadagnata il plauso di media e istituzioni, e che oggi si sente tradita.

“Stiamo cercando di mettere a sistema questo spontaneismo”, andavano ripetendo i membri del governo a metà marzo, quando i profughi arrivati erano già 40 mila ed era chiaro a tutti che l’Italia non sarebbe stata in grado di fare la sua parte senza l’accoglienza messa in campo da amici e parenti ucraini già residenti e dalla solidarietà di molti italiani. Vista l’insufficienza dei posti nel Sistema di accoglienza e integrazione (SAI) e nei Centri di accoglienza straordinaria (CAS), il cui contributo ad oggi supera di poco le diecimila unità, l’Italia decide di adottare un modello in cui non ha mai davvero creduto, quello dell’accoglienza diffusa: alloggi indipendenti o presso famiglie private, finanziati dalla Protezione civile e gestiti dagli enti del Terzo settore che avrebbero erogato assistenza e servizi. Così, tra la febbrile ricerca di immobili da parte delle prefetture, il disordinato slancio dei comuni e le migliaia di persone sistemate negli alberghi, la palla passa alla Protezione civile che definisce regole e contributi. Il bando per i primi 15 mila posti scade il 22 aprile scorso e la risposta del terzo settore supera ampiamente le aspettative: in appena una settimana le associazioni individuano più di 24 mila posti. E’ la vera, buona notizia di questa storia, motivo d’orgoglio per chi ha sempre cercato di opporre all’approccio sicuritario un’idea più sostenibile e integrata – diffusa, appunto – dell’immigrazione: “Basti pensare che il sistema SAI ci ha messo vent’anni per dotarsi della stessa disponibilità numerica”, rivendica il responsabile nazionale immigrazione di Arci, Filippo Miraglia.

Alle istituzioni non sprecare questo slancio. Dei 24 mila posti sono 17 mila quelli ammessi al bando e il 6 maggio viene resa pubblica la lista. Eppure solo in questi giorni iniziano ad essere firmate le prime convenzioni. Ma si tratta di poche centinaia di posti e siamo a luglio. A rallentare le cose ci ha pensato la burocrazia. Perché se le convenzioni vanno firmate con la Protezione civile, gli accordi vanno siglati con i comuni. L’Associazione nazionale dei comuni italiani (Anci) pretende un preventivo accordo di partenariato tra le amministrazioni locali e gli enti capofila come Arci, Caritas, eccetera. “Un documento che poteva essere prodotto in seguito visto che i comuni avevano già espresso disponibilità e interesse ai progetti di accoglienza con la lettera di intenti necessaria per la partecipazione al bando”, spiega Miraglia. Che racconta: “Il passaggio si è rivelato il principale motivo di ritardo: c’è il comune commissariato, quello sotto elezioni amministrative, quello che deve ancora nominare l’assessore competente, solo per fare alcuni esempi”. Solo all’Arci, primo tra gli enti coinvolti per numero di disponibilità, la burocrazia congela più di 400 dei 2.326 posti ammessi al bando. E non saranno gli unici. Il bando per questa prima quota di accoglienza diffusa dà priorità allo spostamento di chi è alloggiato negli alberghi a spese della Protezione civile, che ancora oggi paga dai 60 ai 70 euro al giorno per il solo alloggio a fronte dei 33 previsti per chi alloggerà in accoglienza diffusa. La priorità determina la sospensione delle disponibilità offerte in Sicilia, Calabria e Basilicata, perché in quelle regioni la Protezione civile non ha persone sistemate nelle strutture alberghiere. Per l’Arci sono altri 491 posti congelati e inutilizzabili fino a nuovo ordine.

“La sospensione delle disponibilità in Basilicata, Sicilia e Calabria è stata arbitraria e ottusa“, commenta il presidente di Arci Basilicata, Pesacane. E rilancia: “Non c’è gente negli alberghi? Ok, ma puoi pensare alle persone ospitate dai comuni o a quelle “altrimenti accolte” grazie alla solidarietà di famiglie e associazioni che non hanno ancora ricevuto alcun aiuto e non ce la fanno più”. Parrebbe semplice buon senso, e tuttavia rimane inascoltato. Chi non può più essere ospitato da privati deve rivolgersi prima alla Protezione civile regionale che attraverso comuni e prefetture verificherà la disponibilità di alloggi nel sistema SAI e in quello dei CAS. “Ma ad oggi in Basilicata non risulta un solo reinserimento nel sistema pubblico“, spiega Pesacane. La stessa cosa conferma Giuseppe Apostoliti, presidente di Arci in Calabria: “Nella provincia di Catanzaro, ad esempio, nemmeno una delle cooperative che gestiscono progetti SAI ha ricevuto inserimenti”. Apostoliti riferisce di decine di casi di accoglienza solidale, anche coordinata da piccoli e piccolissimi comuni, che fino ad oggi non hanno ricevuto sostegno economico né soluzioni alternative. “E’ così in tutta la regione: casi come quello di un convento di suore che su iniziativa del loro piccolo comune – appena 500 anime – ospita dieci persone. Stiamo dando una mano attraverso il Banco alimentare perché le spese sono diventate insostenibili per la piccola comunità di religiose”, racconta descrivendo un clima di generale confusione, “dove manca un tavolo regionale permanente per la gestione dell’emergenza e i comuni ancora aspettano i fondi dei bandi prefettizi siglati nelle prime settimane dell’emergenza”. E non è finita. Pesacane racconta che in Basilicata “il 22 marzo scorso la prefettura ci fece d’urgenza l’affidamento per 24 posti. Stiamo ancora pagando l’affitto e i costi, ma la prefettura non ci ha mai mandato nessuno. Né qualcuno ci autorizza a utilizzare gli alloggi”.

Il circolo Arci Thomas Sankara di Messina ha messo a disposizione del bando della Protezione civile 34 posti, anche questi congelati. “Siccome il circolo è formato da molti stranieri e tra i soci ci sono anche ucraini residenti qui, subito dopo l’inizio della guerra abbiamo organizzato l’accoglienza con i privati che si sono fatti carico di tutti i costi”, racconta la vicepresidente Carmen Cordaro. Tra gli accolti, anche due famiglie che ora avrebbero bisogno di essere prese in carico dall’accoglienza pubblica e che invece non si riesce a far rientrare nemmeno nei 34 posti congelati del bando della Protezione civile, “perché si deve trattare di alloggi liberi e non già occupati”. Come nelle altre regioni “anche qui il reinserimento nel sistema pubblico non sta funzionando”. Cordaro spiega che in molti casi gli appartamenti offerti agli ucraini sono case che venivano messe a reddito, soprattutto per la stagione turistica: “Chi ha dato ospitalità convinto che si trattasse di un tempo limitato, quello necessario allo Stato per organizzarsi, adesso è in difficoltà e cerca risposte che non arrivano”. Nell’incertezza sono anche le famiglie ucraine e da ogni parte d’Italia arrivano testimonianze di persone che tra difficoltà linguistiche, mancata assistenza e problemi anche nell’accesso ai 300 euro del contributo di sostengo scelgono di rimettersi in viaggio. “Non senza gratitudine, ma se li facciamo sentire isolati molti preferiscono andare in Polonia e sentirsi più vicini al loro paese”, ragiona Cordaro.

Se passiamo alle regioni del Nord le cose non cambiano. “Erano le amministrazioni pubbliche che ci chiamavano perché non sapevano dove metterli, e grazie ai fondi privati delle famiglie che si rendevano disponibili ad oggi abbiamo accolto più di 350 persone, per la maggior parte alloggiate a Milano“, racconta Musicco di Refugees Welcome, la cui piattaforma raccoglie tuttora iscrizioni di ucraini in cerca di sistemazione. “Ma non stiamo accogliendo altri profughi perché c’è totale incertezza, oltre a difficoltà di ogni genere: a Milano per lentezza burocratica facciamo fatica a dare il medico di famiglia perché in tanti non hanno ancora il codice fiscale e intanto noi paghiamo le visite mediche. Per lo stesso motivo ci sono persone che non possono lavorare né avere i famosi 300 euro che lo Stato eroga per un massimo di tre mesi”. L’effetto: “Le famiglie ospitali sono arrabbiate e vogliono sapere se i loro sforzi troveranno sostegno con il nuovo bando della Protezione civile”. Si tratta di altri 15 mila posti in accoglienza diffusa, già previsti e potenzialmente aperti a chi continua a sostenere da solo tutti i costi. “Ma operativamente va ancora tutto definito e implementato e siamo in attesa di un incontro tra Protezione civile e Anci per una procedura che si vuole coinvolga i comuni”, spiega Miraglia. Che visti i precedenti non immagina nulla di veloce: “Il rischio è che produca un meccanismo che sfiducerà la gente e disincentiverà l’ospitalità portando le persone a lasciar perdere o a continuare a tenersi i rifugiati a proprie spese”. E aggiunge: “Come Arci tra famiglie a cui diamo una mano e persone direttamente a nostro carico abbiamo un migliaio di profughi. Ma sto cominciando a dire ai nostri di accompagnare chi non ce la fa più dai comuni o dalle prefetture, perché in un modo o nell’altro se ne facciano carico, non ci è data alternativa”.

Non rimane che fare due conti. Sono circa 10 mila gli ucraini ospitati nei CAS e appena 740 nel SAI, nonostante il governo abbia disposto l’attivazione di 3.530 posti con l’allargamento dei progetti esistenti e di altri mille per nuovi progetti SAI. Meno di novemila le persone alloggiate in alberghi, a quanto dichiarato dalla Protezione civile. In totale si tratta di 20 mila persone accolte a spese dello Stato. Per le altre continuano a pensarci i privati che, al netto di un nuovo bando ancora tutto da definire, al momento sono esclusi dall’accoglienza diffusa e trovano sbarrate le altre strade. “I centri di accoglienza sono stati tutti pagati, mentre gran parte del peso viene scaricato su famiglie che vengono abbandonate: la famiglia non è un centro di accoglienza, tutto il tempo perso fa danni”, commenta Musicco. Che domanda: “Possibile che lo Stato italiano sia così lento che le persone fanno in tempo a disilludersi e andarsene dall’Italia prima di essere prese in carico? L’attenzione è diminuita e l’afflato iniziale va scemando, e la risposta straordinaria della società civile rischia di venir meno a causa del limbo in cui la si abbandona”

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