Turbanti, caftani, rafia e i colori della politica. Al Victoria&Albert, il museo di Londra che da sempre racconta tendenze e dettagli della storia del costume, il 2 luglio si inaugura la prima mostra sull’Africa: “Africa Fashion”, che resta a South Kensington fino al 16 Aprile 2023. Ci sono voluti due anni di lavoro per organizzarla e raccogliere 250 tra oggetti, foto, abiti di almeno 45 stilisti, che insieme raccontano l’evoluzione del costume nei diversi stati africani ed il loro legame con un periodo di rivoluzioni epocali. Nella mostra, oggi, si celebrano l’indipendenza dal colonialismo e le conquiste raggiunte a partire dal rinascimento del 1950.
Il passo verso il riscatto è breve: moda, musica, arte, fotografia e cinema in queste sale vogliono celebrare la creatività che ha spinto la voglia di libertà attraverso immagini e manufatti. Si comincia subito con la passione politica, con la raccolta delle prime pubblicazioni dei membri del Mbari Club, circolo di scrittori, artisti e musicisti. Nella teca stanno accanto alla copertina dell’album “Beasts of No Nation”, la canzone della chiamata alle armi di Fela Kuti contro il regime nigeriano. Il disco del 1986 ha dato voce alle sofferenze dell’epoca, all’esperienza in carcere e alla grande voglia di riscatto espressa dall’energia del fondatore dell’Afrobeat.
Ma c’è anche un tributo a Kwane Nkrumah, il primo ministro del Ghana liberato dagli inglesi nel 1957. Il leader dichiarò l’indipendenza del paese affacciandosi ad un balcone del vecchio campo di polo di Accra con un abito in Kente. La liberazione era anche quella dai costumi europei, era la rivendicazione di una cultura attraverso un messaggio chiaro: Adwini Asa, il modello indossato quel giorno, voleva dire “Ho fatto il mio meglio”. Scegliere un abito come un atto politico: Kwane Nkrumah non fu né il primo né l’ultimo a farlo. In questo viaggio verso il sud del continente, si arriva ai primi anni ’90, alla liberazione di Nelson Mandela. Per celebrarlo si è scelto un indumento che raffigura il volto di quello che sarebbe stato il primo presidente nero del Sudafrica. Qui la scritta: “Una vita migliore per tutti – lavoriamo insieme per posti di lavoro, pace e libertà”.
A farla da padrone in ogni teca sono i colori, simbolo di gioia e di vita e, a queste latitudini, forma di linguaggio e di espressione fortissima. “Il linguaggio del DNA, della memoria e del racconto di sé”, spiega Artsi, Fashion Designer, Maison ArtC, uno dei creativi presenti al V&A. Gli abiti sono simboli, i tessuti raccontano la cultura, il ceto sociale e religioso con codici antichi e molto diversi da quelli usati in Europa. Insieme si sposano seta rosa scintillante e strati di rafia, quando a creare è la mano della stilista, modella e ballerina camerunese Imane Ayissi.
Christine Checinska, co-curatrice della mostra, spiega che gli stilisti presenti con le loro creazioni sono stati coinvolti direttamente nella preparazione di tutta l’esposizione, ma pensare di raccontare tutto il Continente Nero in queste sale è impossibile. In effetti, quel che mette in scena di sé il Marocco, nulla ha a che vedere con la storia del costume del Ghana o del Mali, ma quello che accumuna la scelta dei vestiti e degli oggetti esposti è la voglia di libertà e di indipendenza dal cappello oppressivo della Vecchia Europa e dei suoi colonizzatori.
Ciò che alla mostra, invece, è stato possibile dare è una infinità di prospettive, illuminando il lavoro di stilisti che hanno vestito Beyoncé dopo aver fatto della lotta per la libertà la loro prima ispirazione. “L’Africa non è un solo Paese, ma un continente immenso che non si può sintetizzare in una parola e in un modello” ci spiega Alphadi, stilista del Mali che, nel 1998, ha fondato il FIMA, Festival Internazionale della Moda Africana, oggi supportato dall’Unesco. La prima edizione si tenne nel deserto del Tigudit, in Nigeria e parteciparono 5000 persone da oltre 52 paesi. Il senso era quello di accendere una luce sulla moda e sulla creatività africana per trasformarla in un’industria vera e capace di creare lavoro e benessere.
A 170 dalla sua fondazione, il taglio del nastro per mano dalla regina Vittoria nel 1852, il Victoria&Albert Museum dice la sua sull’Africa, mentre la Gran Bretagna continua a fare i conti con la sua storia imperialista, affrontando i moti indipendentisti delle sue ultime colonie. Paradossalmente, un museo che venne fondato in un momento di grande espansione dell’Impero Britannico, oggi espone anche il materiale frutto delle guerre di conquista. E’ il caso del Madquala Treasure, un tesoro composto da circa 80 pezzi esposti al British Museum e oggi in parte al V&A e frutto della campagna militare in Etiopia del 1868. Ma, fuori dagli stereotipi, fuori dall’etnografia dei classici, andando oltre le radici colonialiste, il cambio di prospettiva che mette l’Africa al centro di se stessa è il cuore di questa mostra, che secondo il parere dei critici, “era dovuta da tempo”.