Mettere un tetto al prezzo del gas sarebbe certamente auspicabile, anche per rendere efficaci le sanzioni verso Mosca. Ma come attuare il provvedimento? Vi sono diversi modi e diversi problemi. Una buona soluzione dipende dalla compattezza dell’Europa.

di Michele Polo (fonte www.lavoce.info)

Perché il price cap

La discussione sulla emergenza energetica seguita alla guerra in Ucraina e alle misure per contenere il prezzo del gas si impernia su un provvedimento, la fissazione di un tetto al prezzo del gas. La proposta politica, portata avanti da Mario Draghi in sede europea e ulteriormente discussa con Olaf Scholtz ed Emmanuel Macron nella visita a Kiev e nel vertice europeo di questi giorni, manca tuttavia, almeno nel dibattito pubblico, di una definizione precisa nei suoi aspetti tecnico-operativi.

L’importanza di una misura di questo genere è immediata, comprensibile e auspicabile: romperebbe il circolo vizioso tra aspettative di una riduzione delle importazioni dalla Russia, spinta al rialzo del prezzo del gas e dei contratti future e aumento delle entrate in valuta pregiata per Mosca che vanifica l’impatto delle sanzioni. Questa nota non intende quindi mettere in discussione motivazioni e utilità del provvedimento, ma discutere i diversi modi con cui potrebbe essere attuato e i problemi che per ciascuno di essi potrebbero presentarsi. Per comprenderli è forse utile una breve descrizione di come, per sommi capi, oggi funziona il mercato del gas nelle sue diverse fasi, dal pozzo di estrazione fino agli utilizzi domestici, industriali ed elettrici alla fine della filiera.

Come il gas arriva in Europa

Il gas viene trasportato in due modi: attraverso i gasdotti internazionali oppure liquefatto e trasportato via mare fino ai terminali di rigassificazione. La prima modalità, a tutt’oggi prevalente, vincola in una infrastruttura di trasporto fissa ed estremamente costosa da costruire l’area di estrazione e l’area di consumo. Per questa ragione sino dagli anni Settanta le forniture via gasdotto si sono realizzate utilizzando contratti di lungo periodo tra paese fornitore e acquirente, rappresentati da società molto spesso di proprietà pubblica, che garantissero il finanziamento e l’utilizzo dell’infrastruttura. Un obbligo di fornitura in capo al paese estrattore, un obbligo di pagamento, indipendentemente dalla quantità fisica ritirata, in capo all’acquirente (le cosiddette clausole take-or-pay). Il prezzo veniva stabilito attraverso una formula indicizzata a un paniere di prodotti petroliferi e aggiornato periodicamente. Questi contratti sono tutt’ora in essere per quanto, in sede di rinnovo, siano stati accorciati nella loro durata. E nella formula che determina il prezzo di cessione del gas è entrato con un peso via via maggiore, per esempio nei contratti con la Russia, quello dei mercati spot.

La fornitura via gas naturale liquefatto (Lng), viaggiando via mare, non subisce evidentemente i vincoli logistici di destinazione propri di un gasdotto e infatti potenzialmente si rivolge a qualunque acquirente interessato all’acquisto, affiancando a un mercato bilaterale via gasdotto un mercato mondiale via nave dove i paesi europei competono in primo luogo con quelli asiatici. L’Europa possiede oggi una capacità di rigassificazione, prevalentemente concentrata in Spagna e Inghilterra, con una capacità totale potenzialmente in grado di sostituire le importazioni dalla Russia attraverso i gasdotti, che tuttavia subisce forti vincoli legati a strozzature nella rete interna all’Europa e difficoltà a gestire i flussi. Con la liberalizzazione del mercato del gas naturale alla fine degli anni Novanta, il numero di operatori attivi nelle varie parti della filiera (importatori, grossisti, distributori, venditori) si è ampliato e il panorama di un tempo, dominato da una grande impresa, solitamente pubblica, responsabile per gli approvvigionamenti del proprio paese (Eni in Italia) è completamente cambiato, con numerosi operatori in ciascuna fase della filiera, società private spesso quotate.

Infine, nell’ultimo decennio si sono sviluppati mercati spot all’interno dell’Europa, di cui il principale è oggi il Ttf olandese, dove sono scambiati quantitativi di gas a breve e contratti future che stabiliscono un prezzo e una data di consegna di quantitativi di gas. Questi mercati, inizialmente nati per ovviare alle esigenze di bilanciamento nei portafogli degli operatori tra richieste di fornitura dei propri clienti e quantitativi importati dai propri fornitori, hanno man mano aumentato la propria liquidità e sono diventati una nuova fonte di approvvigionamento e di arbitraggio e un mercato finanziario dove si scambiano titoli appoggiati alle sottostanti commodities. Per dare un’idea, in un mercato spot maturo il gas passa di mano in media almeno una ventina di volte in transazioni di arbitraggio prima di abbandonare il mercato e alimentare i propri utilizzi finali. I prezzi che si fissano sui mercati spot, in primo luogo il Ttf olandese, rappresentano il prezzo di riferimento per gli operatori una volta immesso il gas nel sistema europeo e sono segnali di prezzo sensibili alla situazione di equilibrio, di eccesso di offerta o di domanda che caratterizza il sistema. Se il prezzo spot supera quello pagato al paese produttore, un importatore avrà convenienza a offrire sui mercati a breve quella parte dei volumi che non sia già vincolata da obblighi contrattuali con il cliente.

Gli obiettivi del tetto

Alla luce di tutto ciò, quali sono gli obiettivi, i problemi e la fattibilità di un tetto al prezzo del gas, a seconda degli obiettivi stessi? Per quanto riguarda gli obiettivi, vi sono due prospettive rilevanti. La prima è quella di schermare, almeno in parte, alcune categorie sociali (famiglie a basso reddito) e produttive (industrie energivore) dal rialzo dei prezzi del gas e dell’energia elettrica, da esso influenzata poiché gli impianti di generazione che fissano il prezzo all’ingrosso dell’elettricità sono quelli alimentati a gas. La seconda, non necessariamente legata alla prima, è ridurre la dipendenza dalle importazioni di gas dalla Russia e di contribuire a rendere incisive le sanzioni stabilite in relazione all’invasione dell’Ucraina.

Vediamo quindi quali misure potrebbero essere prese per imporre un tetto al prezzo del gas e con quali obiettivi risultano coerenti. Il punto cruciale da cui partire è: di quale prezzo del gas vogliamo parlare? Il tetto potrebbe essere collocato nel mercato al dettaglio che interessa gli acquirenti finali (famiglie e imprese) e le bollette. Un tale tetto esporrebbe tuttavia quanti riforniscono questo mercato a forti perdite, nel momento in cui il prezzo all’ingrosso a cui il gas viene acquistato fosse superiore a quello prefissato per la vendita ai clienti finali. Per garantire le forniture occorrerebbe quindi compensare quanti operano sul mercato interno nella fornitura della clientela retail per la differenza tra prezzo capped e prezzo di mercato. In alternativa, potrebbero essere messe in atto forme di ristoro direttamente rivolte ai clienti finali che si intende proteggere. Questo meccanismo è quello più facilmente attuabile e ricalca la strada seguita dal governo sin dall’autunno 2021 per venire incontro all’aumento dei prezzi dei servizi energetici, e carica tutto l’onere degli alti prezzi dell’energia sul bilancio pubblico e i contribuenti. La misura, non incidendo sul prezzo del gas importato dalla Russia, non avrebbe invece alcun impatto sul secondo degli obiettivi enunciati, lasciando inalterati i pagamenti e i flussi di importazione.

In alternativa, si potrebbe pensare a un tetto sul prezzo pagato per le importazioni via gasdotto dalla Russia, conseguendo il secondo degli obiettivi e potenzialmente, nella misura in cui il prezzo ridotto fosse trasferito a valle ad alcune categorie di utenti, anche il primo. L’argomento spesso evocato si articola in questo modo. L’Europa è uno dei principali acquirenti di gas russo, quindi è un monopsonista e come tale può far valere il proprio potere negoziale nei confronti di Mosca. Questa visione pare tuttavia ancorata all’immagine del mercato del gas precedente agli anni Novanta e dimentica che, da parte russa, c’è effettivamente un unico venditore monopolista, Gazprom, mentre dal lato europeo gli attori sono molto numerosi, ciascuno vincolato da contratti con Gazprom, e abituati dopo due decenni di liberalizzazione a operare in modo indipendente. Per poter ricostruire dal lato europeo un monopsonio, un singolo acquirente che negozi con la controparte russa, occorre quindi portare indietro l’orologio di due decenni, conferendo alla Commissione europea il ruolo di acquirente unico per tutte le importazioni via gasdotto dalla Russia e affidando a essa l’allocazione dei quantitativi importati tra i diversi paesi e ai diversi operatori nazionali.

Nell’offerta complessiva di gas al sistema europeo si creerebbe in questo modo un segmento importante pagato ai fornitori russi a un prezzo controllato inferiore a quello prevalente negli altri contratti di fornitura e nel segmento del Lng. A chi debbano andare queste rendite inframarginali è una componente cruciale dell’intera manovra. Sembrerebbe naturale immaginare che gli importatori dalla Russia che acquistassero il gas al prezzo ridotto trasferiscano a loro volta lo sconto a quelle componenti della domanda (famiglie a basso reddito e industrie energivore) che maggiormente subiscono l’onere degli alti prezzi dell’energia in questo periodo. Nell’allocazione tra i diversi paesi del gas contrattato dalla Commissione dovrebbe essere quindi imposto un obbligo agli importatori nazionali e agli altri soggetti a valle nella filiera del gas di contenere i ricarichi coprendo i costi senza lucrare le rendite potenziali derivanti dalla differenza tra il prezzo cappato e quello di mercato del gas. Famiglie a basso reddito e industrie energivore pagherebbero quindi un prezzo ribassato del gas derivante dal tetto imposto al momento dell’importazione dalla Russia. In questo modo verrebbero centrati entrambi gli obiettivi, sanzioni alla Russia e protezione delle componenti esposte della domanda. Un soggetto istituzionale attrezzato a questa regolamentazione dei prezzi dell’intera filiera sembrerebbe in modo naturale l’Autorità nazionale di regolazione dell’energia, Arera nel caso italiano.

Questa soluzione ha evidentemente un grande punto interrogativo. Per quale ragione la Russia dovrebbe rinunciare alle entrate di valuta pregiata che oggi alimentano la sua economia, sostengono il rublo e finanziano lo sforzo bellico in Ucraina accettando un prezzo ribassato del gas esportato in Europa? Che tempi e che esiti potrebbe avere un negoziato tra Unione europea e Russia su questa materia cruciale? Come affrontare un confronto che ha tutto di bellico tranne l’uso delle armi? E quali mosse avrebbero a disposizione le due parti durante il negoziato per chiudere a proprio favore la trattativa?

Un negoziato bilaterale, quand’anche vi si giungesse, deve tenere conto del potere negoziale delle parti, che a sua volta dipende dai costi che reciprocamente sarebbero in grado di infliggersi Per parte russa, ovviamente, il costo di un non-accordo con l’interruzione delle forniture starebbe prima di tutto nel venir meno degli ingenti pagamenti in valuta pregiata che riceve dalle esportazioni di gas in Europa, con poche possibilità di reindirizzare i flussi verso altri paesi importatori data la logistica dei gasdotti esistenti. Per parte europea, i punti di debolezza non mancano: l’impossibilità almeno per i principali importatori, Germania e Italia, di sostituire completamente prima di un paio d’anni le forniture russe con altre fonti, con ripercussioni importanti sia sul prezzo del gas e dell’elettricità che sulla necessità di procedere a razionamenti ben al di là della flessibilità offerta dai contratti interrompibili. In altri termini, ancora per un paio d’anni l’Europa non è in grado di gestire le conseguenze di una interruzione completa delle forniture dalla Russia.

Nell’immaginare un negoziato tra Europa e Russia vediamo quindi reciproche difficoltà non solo economiche, ma anche di tenuta politica dei sistemi, dove tuttavia si fronteggiano da una parte un regime autoritario e dall’altra 27 democrazie che subiscono impatti molto asimmetrici. Un negoziato protratto per mesi, con l’inverno che arriva e le forniture russe che si interrompono è uno scenario sicuramente non facile da gestire per l’Unione europea.

Una ulteriore questione riguarda il fatto se un tetto al prezzo del gas dovrebbe coinvolgere non solo le importazioni dalla Russia, ma anche tutte le forniture via gasdotto che raggiungono il sistema europeo dalla Norvegia, dall’Olanda, dall’Azerbaijan, dall’Algeria e dalla Libia. Questa opzione, che porterebbe a un tetto al prezzo del gas da qualunque gasdotto che entri nel sistema europeo, appare ancora più complessa rispetto a una misura concentrata sulle importazioni da Mosca. Non è chiaro per quale ragione gli altri paesi fornitori, cui la Commissione e i singoli stati membri si rivolgono in questi mesi per aumentare le forniture e sostituirle a quelle di Gazprom, dovrebbero accettare un prezzo inferiore a quello dei contratti in essere. Né sono chiare le ragioni in base a cui la Commissione potrebbe chiedere un tale sacrificio a paesi di cui ha necessità per supplire alle proprie carenze di approvvigionamento. Estendere il price cap aumenta quindi la complessità dei negoziati, a questo punto multilaterali, allineando pericolosamente gli interessi della Russia e degli altri paesi produttori.

Un’ulteriore ragione per cui l’estensione del price cap non è consigliabile sta nel fatto che il prezzo di riferimento per il gas europeo si fissa sui mercati spot e dipende dall’offerta marginale, rappresentata dal gas liquefatto. In altri termini, imporre un tetto al prezzo del gas acquistato dall’Algeria ridurrebbe gli introiti di questo paese, ma non inciderebbe in misura significativa sul prezzo di riferimento nei mercati spot europei. Il sistema gas europeo ha, ed avrà tanto più in futuro, bisogno delle forniture via nave di Lng, rivolgendosi quindi ad un mercato mondiale dove non è possibile imporre un tetto al prezzo. Il prezzo nei mercati spot rimarrà quindi il prezzo di riferimento e dipenderà dal prezzo del gas liquefatto che raggiunge l’Europa via nave.

Infine, si potrebbe pensare di imporre un tetto al prezzo del gas scambiato sui mercati spot. Per quanto in questo caso i contratti di importazione via gasdotto non verrebbero toccati, la loro indicizzazione ai mercati spot potrebbe ridurre il prezzo pagato anche in questa fonte di approvvigionamento. Qualora tuttavia il cap fosse fissato a un livello inferiore a quello prevalente negli altri mercati del mondo, assisteremmo ad una interruzione delle forniture fisiche via nave, che si rivolgerebbero ai mercati asiatici, acuendo la dipendenza del sistema europeo dalle importazioni attraverso i gasdotti e generando una spinta a un aumento del prezzo del gas pagato a tutti i fornitori di gas all’Europa via tubo, inclusi russi, algerini e quant’altro.

In conclusione, la soluzione più favorevole per i paesi europei sarebbe quella di un tetto al prezzo del gas importato dalla Russia e di una destinazione prioritaria di questi volumi di gas a basso costo alle componenti fragili ed esposte della domanda. Il costo dell’operazione non ricadrebbe sui contribuenti europei, ma sulle finanze dello Stato russo. Quanto e in che tempi una operazione di tale impatto e portata sia possibile è una questione che esula i confini dell’economia e risiede nella compattezza e nella capacità di iniziativa politica dell’Europa. Se le sanzioni sono un’alternativa alla guerra con altri mezzi, questa è la vera posta in gioco parlando di price cap.

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