Economia & Lobby

Turchia, (s)vendita di valuta e sottomissione all’Arabia Saudita: la doppia mossa di Erdogan per arginare l’inflazione

Il governo di Ankara ha pensato di costringe le aziende a vendere valuta forte per cercare di sostenere la lira e contrastare la corsa dei prezzi. L'ultima restrizione sui prestiti del governo turco potrebbe sostenere, in una certa misura, la ripresa della valuta locale, ma non senza il rischio di effetti collaterali dannosi.

Vendere valuta forte da un lato e dall’altro chinare il capo dinanzi all’Arabia Saudita, uno dei pochi players in grado di sostenere la boccheggiante economia turca. La strategia di Recep Tayyip Erdogan, a un anno (se non meno) dalle prossime elezioni presidenziali, passa inequivocabilmente da queste due direzioni di marcia, nella consapevolezza che l’alleato russo e quello cinese sono al momento “impegnati” su altri fronti. Per cui ad Ankara tocca individuare vie di fuga alternative, per non essere fagocitata dalla sollevazione popolare in un momento difficilissimo per cittadini e imprese alle prese con un’inflazione al 73,5%.

In primis il governo ha pensato di costringe le aziende a vendere valuta forte per cercare di sostenere la lira e contrastare la corsa dei prezzi. L’ultima restrizione sui prestiti del governo turco potrebbe sostenere, in una certa misura, la ripresa della valuta locale, ma non senza il rischio di effetti collaterali dannosi. In questo senso va registrata una novità alla voce relazioni con l’Arabia Saudita: Mohammed bin Salman , il principe ereditario dell’Arabia Saudita, ha visitato la Turchia per la prima volta dopo anni di gelo diplomatico segnando un riavvicinamento oggettivo. Dal 2020 è in atto un boicottaggio informale delle merci turche in Arabia Saudita, ma da alcuni mesi sembra essere stata avviata una nuova era: più legami bilaterali, rimozione delle restrizioni commerciali e un possibile scambio di valuta. Ovvero, le condizioni finanziarie di Erdogan sono talmente compromesse che il leader turco accetterebbe qualsiasi condizione dal potentissimo Mbs e dalla sua scommessa denominata Vision 2030, ambizioso progetto per porre le basi di uno sviluppo economico saudita slegato dalla dipendenza dal petrolio.

Nel frattempo Erdogan annuncia l’aumento del salario minimo, chiara mossa elettorale in vista dei prossimi appuntamenti: deve indire elezioni presidenziali e parlamentari al più tardi per il giugno 2023, ma è sotto pressione politica non solo per risarcire i turchi vista l’impennata dell’inflazione, ma anche perché i giovani e il “partito del non voto” si stanno dirigendo verso candidati alternativi. Tra di loro il terzetto composto da Kemal Kılıçdaroğlu, presidente del Partito popolare repubblicano (Chp), Ekrem İmamoğlu, sindaco di Istanbul (Imm) e Canan Kaftancıoğlu, il volto femminile combattuto a colpi di denunce dal governo turco proprio perché portatrice di un vento nuovo nel paese.

Nel mentre resta sempre negativo il tasso di disapprovazione del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan che a giugno ha fatto segnare il 50%: ovvero la metà degli intervistati dal sondaggio MetroPoll ha affermato di non approvare il modo in cui sta lavorando come presidente. Inoltre secondo Meral Akşener, leader dell’opposizione (Ip), Erdoğan sta per chiedere un aumento del suo stipendio del 40%. In sostanza sembra sempre più plausibile che il vero nodo erdoganiano non sia tanto con i cosiddetti dossier esterni, come gas, Nato, curdi e rivendicazioni assurde su Cipro, quanto con la mentalità occidentale dei suoi cittadini che, semplicemente, chiedono libertà e diritti che il governo non accorda.

@FDepalo