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Grandi dimissioni, negli Usa lasciano oltre 4 milioni di lavoratori al mese. Ora cercano stipendi più alti per contrastare l’impoverimento causato dall’inflazione

Nei 12 mesi fino ad aprile le assunzioni sono state 78 milioni e le separazioni 71,6 milioni, con un aumento netto dell’occupazione di 6,4 milioni. Alcuni analisti ipotizzano una forte relazione tra la quota di impiegati che lascia il lavoro e l'aumento dei prezzi. Ma, scontando l'inflazione, gli stipendi reali statunitensi anziché crescere sono calati del 3,5% rispetto a un anno prima. Il consumatore medio deve sborsare circa 460 dollari in più ogni mese. Molti cambiano posto nella speranza di guadagnare di più

Continuano a viaggiare a ritmi sostenuti le cosiddette “grandi dimissioni”. Ma il fenomeno americano e ormai globale, spesso rappresentato come una semplice fuga dal lavoro, nasconde invece la ricerca di nuove opportunità e ora anche di migliori retribuzioni per contrastare l’impoverimento economico causa inflazione e puntare allo sviluppo di nuove competenze, in un diverso contesto lavorativo che sappia valorizzare le persone.

Negli Usa solo ad aprile sono state 4,4 milioni le persone che hanno lasciato volontariamente il proprio impiego secondo l’ultimo bollettino mensile dello U.S. Bureau of Labor. I licenziamenti sono stati invece 1,2 milioni, e sommando altre 363mila “separazioni” le persone che nel giro di un mese hanno lasciato il lavoro sono state complessivamente circa 6 milioni. Numeri da capogiro a fronte, tuttavia, di ben 6,6 milioni di nuove assunzioni. Nei 12 mesi fino ad aprile le assunzioni sono state 78 milioni e le separazioni sono state 71,6 milioni, con un aumento netto dell’occupazione di 6,4 milioni. Questi valori includono anche i lavoratori che hanno cambiato impiego più di una volta durante l’anno. Il numero di posti disponibili ad aprile si è attestato a 11,4 milioni, con 1,9 impieghi potenziali per ogni persona senza lavoro. La disoccupazione dalle parti di Washington è infatti ai minimi. Dopo aver superato il 14% nel periodo pandemico, oggi si ferma al 3,6 per cento.

Ciò significa che le aziende devono affrontare una dura concorrenza per trovare lavoratori e lo fanno aumentando i salari. Il Wage Growth Tracker della Federal Reserve di Atlanta mostra a maggio una crescita salariale del 6,1%, rispetto al 3% dell’anno precedente. Salari più alti equivalgono a costi aziendali più elevati e quindi a prezzi più elevati. Qualcuno suggerisce che sia proprio la mobilità della forza lavoro e la concorrenza salariale ad alimentare l’attuale esplosione dei prezzi. Una lettera di Renato Faccini, Leonardo Melosi e Russell Miles pubblicata dalla Federal Reserve di Chicago sottolinea l’esistenza di una forte relazione tra la quota di lavoratori occupati che lascia il lavoro e il tasso di inflazione dei salari e dei prezzi. Secondo gli autori l’azienda che intende assumere deve offrire un salario sufficientemente elevato per rendere l’offerta attraente. E se un lavoratore fosse molto apprezzato dal suo presente datore di lavoro, questi potrebbe offrirgli un aumento di stipendio per mantenerlo nel suo attuale impiego. Aumentando di conseguenza i costi aziendali: la famosa “spirale prezzi-salari” paventata anche in Europa dove finora gli aumenti salariali sono ridottissimi. Tuttavia, questa sembrerebbe essere solo una parte della verità.

Negli Usa a maggio i prezzi al consumo sono cresciuti dell’8,6% rispetto ai 12 mesi precedenti, ai massimi degli ultimi 40 anni. Questo vuol dire che, scontando l’inflazione, i salari reali anziché crescere sono diminuiti del 3,5% rispetto a un anno prima, consolidandosi verso il basso nella maggior parte dei settori. Di conseguenza, secondo le stime di Moody’s Analytics, il consumatore medio deve sborsare circa 460 dollari in più ogni mese rispetto allo scorso anno per pagare gli stessi beni e servizi. Non solo: l’Università del Michigan ha rilevato che il reddito disponibile reale pro capite è sulla buona strada per mostrare il più grande calo annuale dal 1932. Insomma, molti lavoratori cercano nuove opportunità e migliori retribuzioni per contrastare l’impoverimento indotto dall’attuale contesto economico. Questo trend con ogni probabilità non si fermerà a breve, come certifica l’imponente ricerca Global Workforce Hopes and Fears della società di consulenza PwC, che ha intervistato 52.195 lavoratori in 44 Paesi nel mondo. Un lavoratore su cinque afferma di voler cambiare lavoro entro un anno, mentre è ancora più ampia, ovvero del 35%, la quota di lavoratori che intende chiedere un aumento al proprio datore di lavoro nei prossimi 12 mesi.

La crescita della retribuzione è una delle principali motivazioni per cambiare lavoro (71%), ma non è l’unica: il desiderio di un lavoro appagante (69%) e il desiderio di essere veramente se stessi al lavoro (66%) rappresentano delle componenti sempre più importanti. E per quasi la metà (47%) la possibilità di scegliere dove lavorare emerge come uno dei fattori chiave. E così per molti lavoratori la componente retributiva si accompagna sempre di più a una valutazione a tutto tondo del proprio impiego, con la consapevolezza che lo sviluppo delle competenze favorisce anche la possibilità di salari migliori. I dati di PwC mostrano che chi ha competenze richieste dal mercato (il 29% del campione ritiene di avere competenze che scarseggiano nel proprio Paese) si sente più soddisfatto del proprio lavoro (70% contro 52%), si sente ascoltato dai superiori (63% contro 38%) e ha più risorse economiche alla fine del mese dopo aver pagato le bollette (56% contro 44%).

Una parte delle aziende sta investendo nell’attuale forza lavoro, ma non è la maggioranza. Solo il 40% dei lavoratori ha affermato che la propria azienda sta migliorando le competenze dei propri dipendenti e solo il 26% ha affermato che il proprio datore di lavoro sta automatizzando o migliorando il lavoro attraverso la tecnologia. Lo stesso vale per il sostegno al benessere fisico e mentale dei lavoratori: solo il 29% degli intervistati ha dichiarato di aver ricevuto supporto su questo piano.