Il rito che precede la corsa, le cerimonie della vestizione, ansia e fibrillazione nelle strade dei contradaioli: viaggio in tutto ciò che rappresenta la manifestazione più incredibile che esiste nel nostro Paese
Il “Faccia” esce dalla chiesa della Lupa e si incammina lentamente verso il ciglio del sagrato. L’espressione solenne, la barba lunga, l’abito medievale stretto intorno al corpo. Quando si ferma tutta via Vallerozzi deflagra in un unico, assordante, boato. Sono migliaia di voci che si mescolano insieme per sparare verso il cielo il proprio grido di speranza. Qualcuno gli dà una pacca sulla spalla. Altri lo abbracciano. Altri ancora poggiano la loro fronte contro la sua. È come se tutti gli stessero affidando un pezzetto della propria anima. Perché il suo destino individuale coincide con il destino collettivo. Il suo ruolo si porta dietro una condanna. O esiziale o propizio. Senza mezze misure. Perché ora il Faccia deve andare fino in piazza del Campo e portare indietro il barbero che la sorte assegnerà alla sua contrada. Tornare con un “cavallino” significherebbe condannare la sua gente al ruolo di perdente. È un rischio che nessuno vuole correre. A meno che prima non sia stato colpito da un presagio.
Nel 2016 la Lupa aveva vinto la carriera del 2 luglio, quella del Provenzano. Un mese più tardi un ragazzo era andato dal capitano e aveva parlato chiaro. Sua moglie aspettava due gemelli. Era sicuro che se fosse andato lui al Campo la contrada avrebbe ottenuto un altro trionfo. Una superstizione che si è trasformata presto in profezia. Perché nella serata del 16 agosto la Lupa aveva vinto di nuovo. Un palio dietro all’altro, per quello che si chiama “cappotto”. Così adesso il Faccia si inerpica lungo la sfiancante salita di Vallerozzi. A spingerlo c’è tutta la sua contrada. Avanzano a passo svelto. Insieme. Con la fiducia che fa tambureggiare i loro cuori. Con la gola che brucia per il caldo e la fatica. È una falange oplitica tenuta insieme da un comune senso di prossimità, territoriale ed emotiva insieme. Ci sono bambini, ragazze, anziani. I più piccoli camminano tenendosi per mano. I più grandi intonano canzoni senesi. Sono stornelli d’amore o canti sull’unicità del proprio rione. Più spesso cori contro i rivali dell’Istrice. “Levate i contadini e fate un censimento, non arrivate a cento. Fate schifo alla città”, cantano. “Puzza di pesce marcio, un popolo ignorante, ma chi so’? Una massa di merdaio’”, ripetono.
Il serpentone si arresta all’ingresso di piazza del Campo. Mentre il Faccia prosegue verso verso l’Entrone il resto del gruppo si compatta. Ognuno affonda i suoi occhi in quelli del vicino, dilata i polmoni, schiude le labbra. Poi un grido sagitta contro la piazza: “Lu-lu-pe!”. È un fracasso che squarcia il silenzio per venirne poi nuovamente inghiottito. Sul tufo ci sono migliaia di persone, ma sembra di entrare in una cattedrale a cielo aperto. La quiete è spettrale, il silenzio disturbante. Si sta tutti gomito a gomito a cullare lo stesso sogno, a esorcizzare la stessa paura. I cavalli scartati dai capitani delle contrade sfilano uno dopo l’altro verso l’uscita. Il numero undici muove il collo di scatto, come a voler dare un bacio al carabiniere che gli tiene aperto un corridoio nella piazza. È allora che sorrisi incerti increspano volti tirati. Ma sono un ristoro effimero. I lupaioli avanzano fino al posto stabilito in base agli accordi con le altre contrade. Quelle neutrali si frappongono fra loro e gli istriciaioli. In modo da evitare incontri. In modo da evitare scontri. L’attesa è macchiata da un peccato originale. La sera precedente, nella sesta batteria di prove organizzate dal Comune, un ferro si è staccato dallo zoccolo di un cavallo ed è schizzato verso un terrazzino posto al secondo piano. Nessuno se n’è accorto. Almeno fino a quando non ha impattato contro la testa di un uomo. La ferite erano superficiali, l’emorragia copiosa.
Un fiume scarlatto che esonda su una faccia incredula. Quando si sparge la voce tutti stentano a crederci. Perché quell’uomo si chiama Stefano ed è uno della Lupa. L’incidente assomiglia a una sinistra profezia. Anche per questo la microcomunità si stringe intorno alla propria guida spirituale. Si chiama don Massimiliano, ma tutti lo chiamano don Moticcia. È un omone di uno e novanta con la faccia gentile e una risata contagiosa. È il cappellano della Nazionale di calcio e della Fiorentina. Ma è soprattutto il sacerdote che ha benedetto i tre cavalli della Lupa che hanno vinto altrettanti Palii fra il 2016 e il 2018. “Oh Moticcione!” esclama qualcuno “beato te che sei prete e ti sei già guadagnato il Paradiso!”. Il parroco sorride, poi qualcuno puntualizza: “Ma proprio perché è un prete è difficile che vada in Paradiso”. Le voci si spengono subito dopo. La situazione è delicata, spiega Luca Luchini, ex priore della Lupa e autentico totem della sua contrada. Dei dieci cavalli che correranno il Palio, otto sono esordienti. Vuol dire che nessuno sa davvero quanto vanno veloci. Significa che nessuno sa come risponderanno alla piazza. L’unico barbero che si conosce è Schietta, che nel 2019, con il Bruco, si è fermato a 20 centimetri dalla vittoria. Vederselo assegnare significa diventare automaticamente i favoriti. E quindi cambiare la propria strategia.
Al momento il fantino della Lupa è Enrico Bruschelli, detto Bellocchio. Suo padre, Trecciolino, è uno dei dominatori del Palio, un figlio del vento. Una consanguineità che però non sembra essersi trasmessa in linea diretta. Bellocchio ha corso cinque carriere senza mai vincere. Ed è caduto tre volte. Così, se la sorte dovesse regalare alla Lupa un cavallo dotato, potrebbe essere sostituito da un big (i più ambiti sono il Tittia, il Gingillo e Scompiglio). La Tratta dei Cavalli è un momento ossimorico. È l’istante in cui le speranze delle dieci contrade arrivano al loro culmine. Ma è anche l’attimo in cui nove devono raccogliere i cocci dei propri sogni. La Lupa se ne accorge presto. Schietta viene estratta come quinta ed è assegnata all’Istrice. Difficile immaginare uno scenario peggiore. Qualche centinaio di metri più il là i rivali si sgolano e si abbracciano, dilatando lo smarrimento dei lupaioli. “Ohi ohi, si è annuvolato anche il cielo dopo sta porcheria”, dice qualcuno. Gli altri cavalli vanno via uno dopo l’altro. Alla fine ne mancano solo due, Zentile e Reo Confesso. “Siamo chiari” predica don Moticcia con il fazzoletto della Lupa che gli copre il colletto da prete: “Quello bono è Zentile. Reo confesso è un troiaio!”. È una vox dei che diventa sentenza senza assoluzione. La Lupa viene estratta come nona. E correrà il Palio con Reo Confesso. “È un cavallino”, dicono. “È finita”, sospirano. Il berbero ha già 12 anni e non è mai stato scelto per il Palio. Un dettaglio che fagocita qualsiasi illusione. I lupaioli se ne vanno con la testa bassa e l’umore pesante come il piombo. Fuori da piazza del Campo, su per Banchi di Sopra, giù lungo Vallerozzi. Poi Reo Confesso viene fatto entrare nella stalla dove sarà accudito dai barbareschi. “Un correrà veloce ma è bellino” bisbiglia qualcuno. Poco lontano, a Porta Camollia, gli istriciaioli improvvisano una festa. Danzano, cantano, prendono in giro quelli della Lupa. Vanno avanti per tutto il pomeriggio. Senza smettere. Senza abbassare la voce. D’altra parte la rivalità è una cosa seria. Soprattutto dagli anni Cinquanta, quando la crescita demografica ha spinto verso nord i confini di Siena. Allora la Lupa era una contrada popolare, un rione costruito intorno a una fabbrica di specchi e a una cereria. L’Istrice, che già occupava un vasto territorio, aveva invece inglobato nuove aree, aveva abbracciato nuovi contradaioli. Così il suo serbatoio aveva iniziato a dilatarsi. Fino a quando il rapporto numerico con i vicini è diventato soverchiante. Fino a quando per i lupaioli lo scontro di piazza non è diventato insostenibile. E sono serviti decenni per riequilibrare la situazione.
Il mercoledì sera si cena nella piazza della Lupa, a Pian d’Ovile. È una distesa di tavoli, sedie e anime deluse. Sono arrivati in novecento. E sono tutti d’accordo su una cosa: l’obiettivo non è più vincere, ma evitare il successo dei rivali. “Spero solo che un vincano i sudici”, ripetono come se fosse una formula magica. Visto il curriculum di Reo Confesso non ha senso provare a ingaggiare un fantino di prima fascia. Sarà un Palio di difesa, quindi tanto vale andare avanti con Bellocchio e sperare in un colpo di fortuna. In un enorme colpo di fortuna.
La mattina successiva la comunità è già effervescente. Qualcuno beve un birrino, altri leggono i giornali, i più giovani portano le panche su per la salita di Vallerozzi. Don Moticcia conforta i suoi fedeli. “Massì, io ho fiducia in Bellocchio, secondo me è bravino”, dice. La sua risata si sente da lontano. Tanto che il barbaresco gli intima di fare silenzio per non disturbare Reo Confesso. Moticcia alza le mani, le appoggia contro la bocca, chiede scusa. La stalla della Lupa si trova proprio accanto alla Chiesa di San Rocco. È un edificio semplice con la facciata in mattoni rossi. Ma le bellezze al suo interno brillano fino a diventare abbacinanti. Vicino all’altare c’è una scultura di un cane, in oratorio è conservata una statua del Santo a grandezza naturale. Le volte del soffitto sono affrescate da dipinti del Seicento. Alcuni raccontano la storia di Giobbe, altri quella del Santo titolare. Fra la cappella e la stalla c’è l’ingresso al museo della Lupa. È un luogo fuori dal tempo che raccoglie molto più della storia della contrada. Appena si scendono le scale ci si ritrova davanti ai drappelloni degli ultimi tre Palii vinti. Hanno colori lucenti e forme insolite. Ma, soprattutto, sono stati realizzati da artisti internazionali. Alle loro spalle ci sono gli altri simboli del trionfo. Ognuno di loro racconta una storia, sussurra di una festa per la comunità.
Addentrandosi nel percorso si possono vedere alcuni costumi d’epoca che sono stati indossati per il Corteo Storico. Ci sono armature in metallo da quaranta chili. E anche qualcuna di cartapesta. “C’è stato un periodo in cui non c’erano molti soldi – spiega Luca Luchini – e così ci siamo dovuti arrangiare. Ma distinguere quelle vere dalle copie è molto difficile”. Ed è vero. Il dato impressionante è che in una città di cinquantamila abitanti ci sono altri sedici posti come questo. “Il Palio si corre in dieci – aggiunge l’ex priore – per noi è come giocare nove derby. Contemporaneamente”. Alcuni membri della contrada hanno la consuetudine di pranzare insieme il 30 giugno, in piazza del Campo. Quando anche l’ultimo è arrivato uno tira fuori una chitarra e inizia a suonare. Tutti gli altri si alzano in piedi. Il petto in fuori, il fazzoletto della Lupa legato intorno al collo. “Di Roma lo stemma, di Siena i colori – cantano – Ci infiammano i cuori di schietta virtù!”. A tavola c’è anche Gianluca. La sua è una storia particolare. È nato in Friuli, ma all’inizio del nuovo millennio si è trasferito per dieci anni a Siena. E se n’è innamorato. A introdurlo nella Lupa è stato il suo collega Luchini. E quella passione gli è rimasta cucita sulla pelle. “Per lavoro ho frequentato molte persone, ma i miei veri amici sono quelli di infanzia e i contradaioli. Persone come loro non le ho trovate da nessuna parte”. Ora il lavoro lo ha portato di nuovo lontano, stavolta a Milano. Eppure ogni anno torna a Siena per vivere il Palio e per iscrivere le figlie al campo scuola della Lupa. Prima di sciogliere la riunione ci si mette tutti in piedi. E si canta ancora l’inno della contrada. Qualcosa cambia durante le prove della sera. Vankook, il cavallo della Civetta, arriva scosso al traguardo. Bighino, il suo fantino, è caduto alla seconda San Martino. Il problema è che il berbero ha riportato un lieve risentimento all’anteriore. La sua presenza al canape è in dubbio. Vuol dire che tutte le strategie delle contrade devono essere congelate. Perché lì dove si ferma la velocità del cavallo inizia a muoversi la diplomazia.
Venerdì assomiglia a una sterminata discesa con il cuore in gola. Il Palio è una fede laica che pretende il suo cerimoniale. Nel pomeriggio il drappellone viene portato nella Chiesa del Provenzano per ricevere la benedizione. La Collegiata non è molto grande, ma uno dopo l’altro fanno il loro ingresso i due alfieri e il tamburino di ogni contrada. Suonano tutti lo stesso ritmo, contemporaneamente. Poi una volta varcata la porta ognuno si ferma per fare una rullata diversa. L’effetto è impressionante. Le percussioni si infilano sotto pelle, si gonfiano nello stomaco, accelerano il battito. Poco dopo tutti convergono in piazza del campo per la Prova Generale. Ed è qui che cambia la storia della carriera. Tirare non ha senso, visto che in gioco non c’è nulla. Eppure dopo una falsa partenza i cavalli di Istrice e Chiocciola arrivano pancia a pancia al San Martino. Schietta, che ha una traiettoria più esterna, scivola sul tufo. La piazza resta con il fiato sospeso. Qualcuno inizia a inveire contro i due fantini. Il berbero si rialza immediatamente ma viene fermato dai veterinari. Bisogna valutare le sue condizioni. Bisogna evitare qualsiasi rischio. Il favorito del Palio è virtualmente fuori dalla competizione. Il Valdimontone vince la prova, ma a nessuno sembra importare davvero. Perché paura di veder rovinata la festa della città è troppo grande. Nella contrada della Lupa va in scena la cena propiziatoria. Stavolta sono in millecinquecento. La voce è corsa subito di bocca in bocca. Tutti ormai sanno dell’infortunio di Schietta. Tutti sanno che molto probabilmente la rivale non correrà il giorno successivo. Eppure nessuno riesce a essere soddisfatto.
“Quando si fa male un cavallo per noi è sempre un dramma”, dicono. “Anche se si tratta di quello dei sudici“, aggiungono. A tavola gli animi sono più sereni. Francesco Frati, magnifico Rettore dell’Università di Siena, è seduto insieme agli altri contradaioli. Ride, scherza, gioca. Ma, soprattutto, fornice un compendio su cosa vuol dire vivere davvero il Palio. “Dopo anni di fidanzamento e un figlio insieme, io e mia moglie abbiamo deciso di sposarci – racconta – Era il 2020 e il Palio era stato cancellato, così ci siamo detti: ‘Sposiamoci il 2 luglio. Non si corre, ma almeno sarà una giornata indimenticabile'”. Davanti a lui è seduto Alessio. È nato a Siena ma da più di vent’anni si è trasferito a Sydney, in Australia. Ogni anno si sobbarca più di 40 ore di viaggio per tornare a vivere il Palio insieme ai suoi amici. Qualche sedia più in là Stefano fa mostra dei due cerotti bianchi che gli coprono la testa. Fino a quando qualcuno non ha un’idea particolare: ritaglia dei cerchi neri e arancioni dai tovaglioli e glieli appiccica sul cranio fino a formare la bandiera della Lupa. Al tavolo d’onore prende la parola il priore, Carlo Piperno. Ha modi delicati che si abbinano a un tono deciso. Il suo discorso è toccante. Si apre con un pensiero ai contradaioli che se ne sono andati in silenzio durante la pandemia, a cui nessuno ha potuto dire addio. Poi insiste sui alcune parole fondamentali: resilienza, solidarietà, onore, festa. Poco dopo Bellocchio si alza in piedi e prende il microfono. “Grazie alla Lupa che ha sempre creduto in me e che fin dall’inizio mi ha dimostrato grande fiducia”, dice. È un gioco delle parti che racconta solo una porzione di verità. Ma è esattamente quello che serve. L’assenza dell’Istrice ha infuso nuova speranza a un popolo che ha convissuto per due giorni con la paura. Tanto che ora il sogno è di vedere Bruschelli arrivare primo al traguardo. Tutti si alzano in piedi, si mettono le mani intorno alle spalle, prendono fiato. “Guarda che polverone, vien su dal Casato. Bellocchio ha il nerbo alzato! Domani il Palio si riappende!”. Più che un canto è un ruggito che pizzica gli occhi fino a farli lacrimare. È come se i componenti di una comunità si fossero sciolti per mescolarsi insieme e diventare un tutt’uno.
L’alba di sabato ha un colore acceso. È il giorno che tutti aspettano da due anni. È il giorno della festa di Siena. Dopo pranzo i ragazzi che partecipano al Corteo Storico e gli alfieri si cambiano nella chiesa della Lupa. Fuori fanno più di 35 gradi. E qualcuno indossa quattro strati di costume, di cui almeno due di velluto. “È talmente grande l’onore che neanche riesco a sentire il caldo”, ripetono. Due signore spruzzano lacca sui capelli dei ragazzi. Poi infilano le parrucche sulle loro teste e completano l’opera con qualche colpo di spazzola. Sul tavolo qualcuno scioglie bustine di Polase nelle bottiglie d’acqua. Dovranno restare così fino a sera, meglio non rischiare che qualcuno possa svenire. Nello spazio accanto alla Chiesa don Massimiliano e don Sergio indossano le vesti da cerimonia. Il barbaresco porta davanti a loro Reo Confesso, prima di lasciare le briglie a Bellocchio. Ai due lati della piazzetta ci sono centinaia di persone. Eppure si sentono solo i loro respiri. Don Massimiliano inizia a benedire cavallo e fantino in un silenzio assordante. D’un tratto si ferma e alza la mano destra. “Reo Confesso – dice – Portaci alla Gloria!”. Si ferma, prende fiato, sospira. Poi dice: “Va e torna vincitore!”. Il prete ostende una reliquia di San Rocco. La bacia il capitano della Lupa. La bacia il fantino della Lupa. La bacia il cavallo della Lupa. Bellocchio accarezza il muso di Reo Confesso e prende fiato. Abbraccia tutti i vertici della contrada mentre le lacrime si affacciano sui suoi occhi.
Non c’è più tempo. Il barbaresco prende il cavallo e lo conduce verso piazza del Campo. La folla si apre a metà senza dire una parola. Poi, quando Reo Confesso è ormai lontano, gridano tutti insieme “Lu-Lu-Lupe!”. E ancora: “Bellocchio ha il nerbo alzato!”. I rapporti di forza si sono annullati. Nei loro cuori sono tutti convinti di poter primeggiare. “Chissà, forse vince il Drago“, dicono. Ancora non sanno che andrà a finire proprio così. Il Corteo Storico scorre lungo le strade di Siena, poi entra a piazza del Campo. Quelli della Lupa prendono posto sui palchi, al centro della piazza, davanti ai televisori a Vallerozzi. Alla partenza sono in otto. Istrice e Civetta sono state tenute a riposo preventivo per non stressare i cavalli. Poco dopo di ritireranno anche Leocorno e Bruco. “Una corsa in sei un s’è mai vista da quando ho memoria”, si mormora in tribuna stampa. Sul tufo il Tittia conduce Zio Frac alla vittoria. Il Palio è del Drago. Bellocchio chiude quarto. Mentre la festa rossoverde risale la città, i senesi fanno ritorno alle proprie contrade. A Vallerozzi preparano i tavoli per la cena di chiusura. Le facce sono stanche, gli occhi provati. Nessuno però è particolarmente deluso. I pensieri sono già tutti al Palio d’agosto. “Se prendiamo un “bombolone” magari si fa montare uno di prima fascia“, dice qualcuno. Le chiacchiere filano rapide, interrotte solo dai tortelloni, dagli affettati e da un po’ di vino. Prima di mezzanotte ognuno riprende la via di casa. Il fazzoletto ancora al collo, la speranza che sta già rifiorendo dalla sconfitta. È un qualcosa possibile solo qui, in questo angolo che accoglie stranieri e li congeda come contradaioli.