Da tanto avevo voglia di parlare della radio. Adesso, giusto per trovare una sorta di ricorrenza da celebrare, posso ricorrere agli esperimenti di Guglielmo Marconi nell’estate del 1895 (il famoso colpo di fucile che confermava l’arrivo del segnale dall’altra parte della collina); o al suo brevetto londinese concesso il 2 luglio 1897; o al primo evento radiofonico pubblico, un concerto trasmesso dalla sua compagnia nel giugno 1920. Ma il mio post non è storico o tecnico, bensì nostalgico.
La prima radio che ricordo in casa era quasi un mobile, in legno e con pretese di eleganza. Lo slancio verso il mondo era già presente sul frontale: un vetro fitto di nomi di città italiane e straniere, conosciute o no (ancora non so dove sia Hilversum), ognuna con una lineetta da sovrapporre a un cursore meccanico per la sintonia. Il cosiddetto “occhio magico” rivelava, colorandosi di verde, la potenza della ricezione della portante. L’accensione non era immediata: dalle grate posteriori si intravvedevano valvole elettroniche che si illuminavano lentamente.
Poi arrivò la televisione, che fece immediatamente invecchiare la radio sia come oggetto sia come servizio. La sua riscossa e il mio personale, stretto rapporto con la radio arrivarono con i transistor. La “radiolina” che mi fu regalata si accendeva subito e la portavo dove volevo; funzionava in modulazione di ampiezza, onde medie e corte: niente a che vedere con l’alta fedeltà. Mi appartavo un po’ per sentire Boncompagni e Arbore proclamare “a tutti i maggiori degli anni 18, questo programma è rigorosamente riservato ai giovanissimi”: era l’inizio di un’attenzione senza precedenti al mondo degli adolescenti, parallela a una rivoluzione musicale le cui tracce sono ancora ben visibili.
Le stazioni che trasmettevano pop e rock erano tutte in onde medie. Per rinforzare il mio francese ascoltavo Radió Montecarló, che allora trasmetteva solo in quella lingua. Un amico mi consigliò, per la musica, la più debole Radio Luxembourg (che in realtà trasmetteva da London W1) e da allora facevo il figo conoscendo con mesi di anticipo le canzoni che, tradotte in italiano, avrebbero scalato le classifiche nostrane.
Ma il mondo mi si aprì veramente con le onde corte. Mi addormentavo tardi per aspettare “The Voice of America Jazz Hour” con la sua sigla accattivante. Cominciai a cimentarmi con lo “special English” del notiziario che la precedeva e a confrontare la garbata ma pressante informazione americana con i nostri notiziari. Le onde corte erano un vero incrocio di contrapposte propagande. Il non plus ultra era quella dell’est, in tutte le lingue europee. Per questioni correlate alla ionosfera il segnale è più forte una volta tramontato il sole. Attorno alle 21:00, 22:00 eccetera, su decine di frequenze si sentivano le stesse sigle: soprattutto le trombe di Radio Praga e lo xilofono di Radio Mosca. Da Praga parlava un italiano, che insisteva sugli aspetti politici; la voce femminile moscovita, invece, oltre che smuovere le mie fantasie adolescenziali con il suo tono severo e l’accento esotico, mi fece capire come si possono dire panzane senza formalmente mentire (posso fornire esempi). Qualche volta mi facevo incantare da una stazione che trasmetteva solo lunghe file di numeri in tedesco: messaggi segreti per le spie? Quella banda di frequenze era permeata dalla guerra fredda; chissà com’è adesso: la propaganda preferisce sicuramente altre vie.
Il fascino delle onde corte riemerse molti anni dopo, quando un collega australiano trascorse un periodo a Bologna; mi fece sentire il nastro che stava per spedire a casa: era una passeggiata fra le diverse frequenze, in cui si alternavano lingue e musiche diverse, formando un mosaico che in effetti rappresentava molto bene la varietà del mondo europeo. Chissà se aveva mai sentito Hymnen di Stockhausen?
Ora la radio accompagna quasi solo la mia colazione con le notizie del mattino. Se voglio raggiungere il mondo, ormai vengo su internet. Ma sono grato al mio grande concittadino, il genio non laureato che tentò ciò che la teoria non riteneva possibile.