Paolo Grossi aveva la straordinaria capacità di farsi ascoltare da tutti: gli studenti, i colleghi, il pubblico delle grandi occasioni rimanevano fissi con lo sguardo su un oratore che sapeva, con linguaggio forbito ma senza paludamenti, dipingere grandi affreschi storici. Non era la storia né delle minutaglie aneddotiche, né dei grandi personaggi: era la storia come sguardo teoretico sulle grandi tendenze di sviluppo di culture e società, che può essere tale solo quando rende conto della polifonia dell’esperienza umana.

Grossi, scomparso lunedì all’età di 89 anni (era nato il 29 gennaio del 1933 a Firenze) questa polifonia la aveva assunta a stella polare della propria ricerca: un grande storico del diritto – ma sarebbe riduttivo fermarsi a tale definizione, ché il suo contributo ha avuto una rilevante influenza anche sui filosofi del diritto e della politica, e sui giuristi positivi (e del diritto positivo era attento e aggiornatissimo conoscitore) – che ha lavorato per mettere in questione quella che aveva definito una mitologia giuridica della modernità, ovvero l’idea – tutta moderna, per l’appunto: illuministica – del legislatore (e dello Stato) come unica fonte delle regole della convivenza.

In realtà Grossi, dagli studi sul diritto medievale in poi, ha illustrato alla sua ampia platea di lettori e ascoltatori che la convivenza umana ha regole che non vengono necessariamente calate dall’alto, ma che emergono dall’esperienza della vita concreta. Rifuggiva dunque dalle astrattezze dell’ordinamento giuridico ‘costruito’ razionalmente, ma non per rifugiarsi in un irrazionalismo immanentistico: al contrario, rintracciava nella vita dei negozi giuridici che si creavano nelle interazioni umane un’intrinseca razionalità storica, che non è storicismo, ma dispiegarsi concreto. E dunque più che di polifonia si dovrebbe parlare proprio di pluralismo: pluralismo degli ordinamenti giuridici e politici, che convivono (anche dialetticamente). Un pluralismo che veniva sì rintracciato nell’ordine giuridico medievale (titolo di un suo memorabile studio), ma anche – ed è questo forse il suo contributo più interessante e più dirompente – nella modernità, ovvero in quella fase in cui l’uomo si è illuso di poter costruire la convivenza con gesto imperativo dall’alto.

Grossi invece ha sempre sottolineato come la vita concreta continuasse a pollare dal terreno dell’esperienza. Come quando, di fronte al mito della proprietà individuale e contro l’individualismo possessivo moderno, aveva scritto – traendone il titolo da un’espressione di Carlo CattaneoUn altro modo di possedere: un libro fondamentale sulle forme della proprietà collettiva. Un modo di decostruire, di nuovo, che lo faceva sentire vicino all’esperienza degli usi civici.

L’esperienza, dunque, ancora una volta. Egli stesso aveva ricordato questo radicamento nella vita concreta quando aveva scritto, nella Pagina introduttiva del primo numero (1972) dei prestigiosi “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno” che aveva fondato (oggi tutti meritoriamente disponibili online sul sito della rivista), che la scientia juris è unitaria o non è, nel senso che il diritto positivo e la storia del diritto (o la sua filosofia, ché Grossi oltre ad averne influenzati è stato anche filosofo del diritto in proprio, sebbene forse si sarebbe schermito rispetto a questa definizione) convivono e dialogano, e soprattutto nel senso che i facitori del pensiero giuridico, come ebbe poi a ricordare – menzionando proprio quella pagina – nella prolusione tenuta in occasione dell’inaugurazione della Scuola di Specializzazione per le professioni legali nel 2002, non sono solo i teorici e i professori, ma lo è anche la prassi delle aule giudiziarie e del lavoro di notai e avvocati, gremiti – come diceva – di intuizioni “sapide di futuro”. Il suo insomma è un istituzionalismo anti-riduzionistico, che restituisce e riverbera la complessità dei rapporti umani, e non ne ha paura.

Non è un caso che Paolo Grossi sia poi stato nominato giudice e poi presidente della Corte costituzionale, perché in essa egli ha potuto essere protagonista di quella vita concreta che da studioso non aveva mai snobbato. E che lì abbia visto incarnarsi quel pluralismo che gli ha poi consentito, con felice intuizione, di distinguere lo Stato dalla Repubblica: lo Stato, pretesa di unitarietà, riduzione; la Repubblica, vivente “proiezione socio-politico-giuridica di una comunità che esprime in essa la propria complessità sociale”, dunque autenticamente pluralista.

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