La Spagna è l’unico paese europeo ad avere una frontiera con l’Africa. L’unico a vedere, da vicino, proprie forze dell’ordine cooperare, gomito a gomito, con la gendarmeria africana. Agenti di polizia con cultura e lingue diverse dispiegate lungo un reticolato che divide l’opulenza dalle ristrettezze. Le due enclavi, Ceuta e Melilla, hanno lo stesso statuto, quello di città autonome, e un comune destino fatto di rivendicazioni politiche cui è contrapposta una strenua difesa dell’integrità territoriale. Comune è pure la spinta sui confini per provare a costruire una vita diversa dall’altra parte della rete. Le pressioni migratorie le avverti ovunque, se vai per terra o se arrivi dal mare.

Melilla è una città chiusa nei suoi 12 chilometri quadrati, è un’isola, quasi sganciata dalla terraferma rivolge lo sguardo solo verso l’Alborán, il mare che bagna la costa andalusa.

La crisi migratoria negli ultimi mesi ha stravolto lo scenario economico e sociale, il contrabbando tollerato – quello che qui chiamano “comercio atípico” – è stato spezzato dalla pandemia e dalle misure restrittive adottate da Rabat dopo le tensioni diplomatiche generate dai flussi irregolari di migranti, non poche volte utilizzati ad arte come arma di pressione politica. I diecimila porteadores marocchini, principalmente donne, che tutti i giorni passavano la frontiera con fardelli carichi di merci, soprattutto panni da rivendere in mercati di seconda mano, hanno dovuto rifarsi una vita.

Il commercio atipico non ha cambiato pelle, è finito. Il Marocco è restio alla conversione al commercio legale: l’apertura di uffici doganali appare, agli occhi della classe dirigente di Rabat, come una rinuncia di fatto alle rivendicazioni territoriali. Così tutto si ferma, ogni cosa si spegne. Melilla guarda a settentrione, come se non avesse un retroterra, come se non ci fosse un confine sul versante meridionale. Una città-isola, appunto. Da una parte il mare, alle spalle un reticolato di 10 metri, una delle barriere più solide d’Europa alimenta povertà e illegalità. Lo percepisci quando vieni dal mare, impigliate sulle scogliere brune al di qua della rete brandelli di vestiti o di tende improvvisate, utili per appostamenti nelle ore notturne, formano un gioco cromatico sinistro. Il sogno è il salto, verso un mondo pronto a regalare qualche opportunità.
Quel salto che non è riuscito ai circa 1700 sud-sahariani provenienti dalle alture di Nador, che lo scorso 24 giugno hanno provato, con l’aiuto di pietre e bastoni, a sfondare la porta frontaliera del Barrio Chino, l’unica un tempo autorizzata per il commercio atipico.

Ha avuto la meglio la reazione a tenaglia delle guardie di frontiera spagnole e marocchine, le cadute letali dalla rete e le asfissie nella calca hanno fatto registrare una delle più gravi sciagure migratorie, lasciando sul suolo 23 morti – 37 secondo la Ong spagnola Caminando Fronteras – e oltre 200 feriti. All’orrore è seguito il ribrezzo delle fosse comuni fatte scavare in tutta fretta dalle autorità marocchine a Sidi Salem, nei pressi del camposanto di Nador.

Ora da più parti si invoca l’apertura di approfondite indagini da affidarsi ad una Commissione indipendente. Le reclamano a gran voce non solo Ong spagnole e magrebine, ma anche Human Rights Watch, la Commissione dei diritti umani dell’Onu presieduta dalla cilena Michelle Bachelet, l’Unione Africana. Intanto l’Associazione Marocchina per i Diritti Umani (Amdh) ha denunciato i ritardi nei soccorsi, corpi feriti lasciati per ore a languire prima dell’intervento delle ambulanze. Critiche che scuotono appena i vertici politici marocchini: sorprende di più la calcolata “freddezza” del socialista Pedro Sánchez, il premier spagnolo, che dopo un certo distacco dagli avvenimenti si è limitato a individuare le mafie come mandanti della spedizione migratoria. Nulla ha detto sulle antiche questioni dell’uso sproporzionato della forza, soprattutto sul versante marocchino, sul modello adottato in materia di asilo, sui trattamenti degradanti. Nulla ha detto sui corpi buttati frettolosamente nelle fosse comuni. Una umanità che non attraversa il campo visivo dei vertici della Moncloa.

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