Sì sa che per i 5S le questioni simboliche sono fondamentali, o almeno lo sono per il loro elettorato. Che adesso sembra spingere per l’uscita del Movimento dal governo, perché quella che potremmo riassumere come la dialettica ‘dentro-fuori’, tra le questioni simboliche, è forse la più importante. Dentro o fuori dalla politica, dentro o fuori dal palazzo. Ebbene, i 5S sono ormai da anni dentro: hanno governato con la Lega, con il Pd, perfino con Mario Draghi: dunque con tutti tranne che con Giorgia Meloni. Dunque, occorre dirselo, difficile risalire la china e rifarsi una verginità politica agitando la questione della purezza, o – per stare alla nostra metafora – del totalmente ‘fuori’. Ora però, dopo tutto e a poco tempo dalle elezioni, i 5S sono appesi quanto mai al dilemma: che fare?

Rimanere nel governo e subire gli strali dell’elettorato che sarà? Oppure uscire sapendo che è già tardi, che alle elezioni mancano pochi mesi? E poi, in fondo, davvero un governo può essere appeso solo a calcoli elettoralistici delle forze che lo sostengono (conosciamo già la risposta, ma facciamo finta di no)? E poi, sempre in quest’ottica del dentro-fuori, c’è l’altra questione altamente simbolica: limite dei due mandati o perpetuazione della classe politica? Politica come servizio a termine, col rischio di produrre la dimaizzazione dei parlamentari riluttanti e ingolositi dall’aver assaggiato i privilegi dello scranno, o dimaizzazione subito per tenersi i parlamentari ma non gli elettori?

Ecco, su tali spinosi dilemmi della presenza-assenza, mi permetto due considerazioni provocatorie (ma non troppo). La prima riguarda il governo: Giuseppe Conte è leader senza poltrona della – fino a qualche tempo fa – maggiore forza politica in parlamento. Prima aveva senso che non fosse nel governo, ché l’altro leader faceva (fa) il ministro degli Esteri. Ma ora? Non sarebbe il caso che Conte chiedesse un ministero di peso, dal momento che i 5S hanno tre ministri (Rapporti con il parlamento, Politiche giovanili e Agricoltura) ma nessuno davvero determinante?

Si dirà: “ma così si peggiorano le cose!”. Certo, entrare nel governo può minare ancor di più la base elettorale di Conte. Ma restarci così, senza contare e senza un ministro importante, ancora di più. Tanto vale che l’“avvocato del popolo” si getti nella mischia, piuttosto che continuare questa agonia. Uscire o entrare sfondando. Tertium non datur.

L’altra questione della presenza è in parte in controtendenza con quanto finora detto (ma non in contraddizione: Conte non è parlamentare, sarebbe un ministro ‘esterno’), che rileva più da un punto di vista strategico. È la questione dei due mandati, che agita i 5S anche stavolta in previsione delle elezioni. In Italia si assiste al singolare paradosso per cui tutto è politica e tutto passa dalla politica, ma poi per fare politica sembra che non si possa far altro che fare il politico.

Il limite del doppio mandato viene dunque percepito dalla politica politicante come un vulnus alla sacrosanta funzione pubblica di servizio al proprio paese, laddove invece il politico di carriera potrebbe essere pensato non come colui che occupa un seggio, ma come colui che lo occupa a tempo e poi magari continua a occuparsi della cosa pubblica in altre istituzioni. Per questo occorrerebbe ripensare le categorie politiche della modernità, e immaginare nuove forme di professione politica. Si dirà che il parlamentare è tanto più efficace e ‘produttivo’ quanta più esperienza ha. Può essere, ma allora si potrebbe pensare a fondazioni e scuole di partito in cui i ‘seniores’ svolgano la loro funzione di indirizzo e consulenza per le nuove leve. Finanziate, fondazioni e scuole, attraverso fondi pubblici.

Perché il punto del limite dei due mandati non sia solo lo stipendio, ma anche un certo ricambio della classe politica. Perché ci deve essere un limite tra sacrosanta riproposizione di un determinato politico per il suo fondamentale apporto in termini di capacità e totale autoreferenzialità e riproduzione del ceto politico, solo per trovarsi una fonte di sostentamento. È una linea non facilmente individuabile, però deve esistere.

Chiaramente il M5S dovrebbe smettere di restituire denari (ma anche sulle restituzioni pesa la questione del dentro-fuori) e pensare alla istituzione di fondi comuni per i ‘veterani’ e per le scuole di partito. Mi rendo conto di star proponendo non una ma due rivoluzioni copernicane: la prima per motivi strategici e superando con scatto agile l’aventinismo; la seconda per salvare ragioni simboliche e capacità politiche.

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