Da capitale della Magna Grecia a capitale della diossina: è la storia di Taranto, distrutta dalle emissioni della fabbrica e dal racconto mediatico della sua tragedia. Ammonta a oltre 12 milioni di euro il risarcimento dei danni che Fabio Riva e Luigi Capogrosso, difeso dall’avvocato Bernardino Pasanisi, dovranno versare al Comune di Taranto per i danni causati alla città dalle emissioni di polveri dello stabilimento tra il 1995 e il 2014. Lo ha stabilito il giudice Raffaele Viglione al termine del primo grado del processo nato dalla causa civile intentata dal Comune ionico, rappresentato dall’avvocato Massimo Moretti. La sentenza di 107 pagine, depositata il 27 giugno scorso, condanna Capogrosso nella sua qualità di ex direttore dello stabilimento e Fabio Riva come unico erede del padre Emilio, contro il quale era stata avviata l’azione prima della sua scomparsa, nel 2014.
Nel dettaglio, il giudice Viglione ha disposto che i due condannati versino al Comune oltre 3 milioni e 200mila euro come risarcimento dei danni materiali subiti dal patrimonio immobiliare comunale nei quartieri Città Vecchia e Paolo VI, oltre 662mila euro per i danni causati alle strutture scolastiche dei due quartieri, 189mila euro per le spese del cimitero di San Brunone situato al quartiere Tamburi a pochi metri dalle ciminiere, e soprattutto, ha individuato la somma di 8 milioni di euro come risarcimento per il danno all’immagine, alla reputazione e all’identità storica e culturale patito dalla città di Taranto. Il giudice Viglione ha ripercorso il dramma ambientale e sanitario vissuto dalla città a partire dall’anno di privatizzazione della fabbrica, quando i Riva divennero i padroni dell’acciaio ionico, ed evidenziato come i risultati delle maxi perizie disposte nel 2012 dal gip Patrizia Todisco abbiamo condotto a risultati che a luglio di dieci anni fa hanno consentito il sequestro senza facoltà d’uso dello stabilimento. Non solo. Ha evidenziato anche come il lavoro del perito nominato nel procedimento civile abbia documentato fotograficamente a presenza sulle superfici di fabbricati di diversi quartieri della città di “polvere rosso-bruna, della cui provenienza dai parchi minerari non potevano sussistere dubbi”.
Ma è soprattutto sul danno causato alla città che il giudice ha scritto parole pesanti come macigni: “I racconti, i numeri, le scene di questo disastro ambientale – si legge nella sentenza – hanno gettato nell’oblio dell’immaginario collettivo ogni legame identitario della città al mare e al proprio passato: la storia gloriosa e millenaria di Taranto, che l’aveva vista “capitale della Magna Grecia” tra le più antiche, floride e potenti colonie fondate nell’Italia meridionale e nella Sicilia orientale, è stata soppiantata dalla sua storia recente, una cronaca nera fatta di immagini terrorizzanti e record percentuali indesiderati”.
Insomma, anche secondo il magistrato “la percezione di un territorio tossico e contaminato, finanche nei prodotti alimentari che offre, foriero di danni alla salute e di pericoli per la vita umana, pronto al coprifuoco e soggetto a tempeste di polveri di minerali nei giorni più ventosi di maestrale, incarna la massima lesione possibile dell’immagine di una città trasformata in “capitale della diossina”, un luogo ove il valore stesso dell’esistenza umana appare ridimensionato ed esposto a rischi altrove inaccettabili“. Insomma: della storia e delle bellezze di Taranto, dopo il racconto del disastro generato dalle emissioni dell’ex Ilva, “non rimangono che brandelli“. Ed è per questo che la quantificazione del risarcimento al Comune per il danno di immagine è stata così elevata: “L’offesa arrecata alla reputazione, all’identità storico-culturale ed economica, al cuore della vocazione abitativa e turistica del capoluogo ionico lo ha travolto, in modo difficilmente reversibile, in quasi tutti i campi e gli aspetti della vita in cui possa esprimersi la sua personalità di ente di natura pubblica, rappresentativo di un territorio e di una collettività di circa 200mila abitanti”.