Il 12 ottobre del 1960 Inejiro Asanuma, popolare e controverso sindacalista socialista assai critico nei confronti del governo per via del trattato di mutua cooperazione e sicurezza con gli Stati Uniti (che l’anno prima, durante un viaggio a Pechino, aveva definito “il comune nemico di Cina e Giappone”), si reca alla Hibiya Hall, il municipio di Tokyo che si trova a Chiyoda, uno dei 23 quartieri speciali della capitale nipponica. E’ pure il quartiere del palazzo imperiale che i giapponesi chiamano Kokyo. Asanuma deve partecipare ad un dibattito politico in vista delle imminenti elezioni per la Camera dei Rappresentanti. L’evento è in diretta tv.
Appena sale sul podio, scoppia una gazzarra: la inscenano gli studenti di destra. E’ un diversivo. Passano pochi minuti e il ventisettenne Otoya Yamaguchi, uno studente universitario legato all’Uyoku dantai, un gruppo estremista di destra, scatta verso il palco ed estrae una spada da samurai “wakizashi”, una katana corta. Mena un primo fendente all’addome di Asanuma, poi un secondo colpo al torace. Il leader socialista morirà in ambulanza. Otoya si suiciderà tre settimane dopo, impiccandosi in cella con un lenzuolo e lasciando una scritta sul muro: “Sette vite al mio paese. Lunga vita alla Maestà imperiale, l’Imperatore!”. Era la citazione di una celebre frase del samurai Kusunoki Masashige che visse nel XIV secolo.
Il grande scrittore Kenzaburo Oe dedicò nel 1961 all’atroce assassinio che sgomentò il Giappone l’accorato racconto Morte di un giovane politico, ma fu aspramente contestato e minacciato dai nazionalisti. Fu costretto ad escluderlo dalle successive antologie.
Il Giappone ha vissuto tragedie come quelle di Shinzo Abe, l’ex premier assassinato durante un comizio elettorale. Fumio Kishida, l’attuale primo ministro, ha condannato categoricamente l’attentato: “Un atto barbaro in piena campagna elettorale, che è la base della democrazia, e questo è assolutamente imperdonabile”. Ma la storia, quella che di tanto in tanto scriviamo con la esse maiuscola, è un intreccio di simili abominii: uno stillicidio continuo, inarrestabile, forse ineluttabile. E’ l’anatomia del potere.
Senza andare a ritroso nei secoli, o immergersi nelle leggende come quella di Romolo e Remo (la vittima), o citare la Bibbia, o ricordare che la scintilla della Prima Guerra Mondiale è stata l’uccisione del Granduca d’Austria a Sarajevo, è sufficiente ricordare che l’anno scorso, il 15 ottobre, il deputato conservatore David Amess è stato ucciso mentre incontrava gli elettori dell’Essex, con venti pugnalate, tre in meno dei fendenti che i senatori romani capeggiati da Marco Giunio Bruto e Gaio Cassio inflissero a Giulio Cesare nelle Idi di marzo del 44 avanti Cristo.
Il 16 giugno del 2016, la deputata laburista Jo Cox fu massacrata a Birstall, non lontano da Leeds: Thomas Mair, uomo di mezza età che frequentava ambienti neonazisti e suprematisti, l’affrontò gridando “This is for Britain!”, pugnalandola quindici volte e finendola con tre colpi di revolver. Pochi giorni fa è tornato in libertà il sessantunenne John Hinckley junior, rampollo di una dinastia di petrolieri: il 30 marzo del 1981 sparò contro Ronald Reagan, presidente degli Stati Uniti da appena settanta giorni, mentre usciva da un albergo di Washington, colpendolo al polmone con un proiettile calibro 22 che sfiorò il cuore. Altri colpi feriscono tre persone. John Brady, portavoce della Casa Bianca, resterà semi paralizzato per tutta la vita. Prima dell’operazione, Reagan si rivolse al chirurgo: “Sono nelle sue mani. Spero che non sia un democratico…”. Hinckley, ritenuto incapace di intendere e volere, fu condannato all’ergastolo in un manicomio criminale. Il rilascio è stato ordinato da un tribunale federale che lo ha giudicato sano di mente, ma già dal 2013 ha trascorso due settimane al mese in libertà vigilata.
Gli americani hanno visto in 181 anni l’uccisione di quattro presidenti. Noi ricordiamo quello di Abramo Lincoln, e soprattutto quella di John Fitzgerald Kennedy, a Dallas, il 22 novembre del 1963. Suo fratello Bob si era candidato alle elezioni presidenziali del 1968. Fu assassinato nella notte tra il 5 e il 6 giugno, il giorno dopo aver vinto le primarie democratiche della California e del Nord Dakota, dopo aver salutato i suoi sostenitori nella sala da ballo dell’Ambassador hotel di Los Angeles. Gli sparò Sirhan Sirhan, un giordano di origine palestinese che motivò il suo gesto (aveva ferito altri cinque membri dello staff di Bob) perché il candidato alla Casa Bianca aveva sostenuto Israele nella guerra dei sei giorni, iniziata un anno e un giorno prima dell’attentato.
Fanatismo, complotti, lotte tra fazioni politiche. Quando venne ucciso John Kennedy, Martin Luther King disse alla moglie Colette: “Lo stesso accadrà a me. Questa è una società malata”. Verrà ucciso due mesi prima di Bob Kennedy, a Memphis, il 4 aprile del 1968, colpito da un cecchino che lo centrò mentre era affacciato al balcone della stanza 306, nel Lorraine Motel (oggi museo). James Earl Ray, il killer, verrà catturato mentre cercava di scappare.
E che dire della tragica saga Gandhi? Il Mahatma – “il nostro beneamatyo Bapu, il padre della nazione” – muore il 30 gennaio del 1948, ucciso da un fanatico indù. Succede alla Birla house, a Nuova Delhi, mentre si recava nel giardino per la rituale preghiera ecumenica. In agguato c’è Nathuram Godse, un indù radicale vicino al gruppo estremista Mahasabha. Godse è convinto che il pacifismo di Gandhi abbia indotto il governo a cedere nei confronti del neonato Pakistan. La Partizione, infatti, aveva scatenato efferate violenze e massacri indiscriminati tra le comunità indù e pakistane, nel 1947 era scoppiata la guerra indopakistana, l’India per ritorsione non voleva pagare 550 milioni di rupie al Pakistan, sebbene il versamento facesse parte degli accordi della Partizione, e il Mahatma aveva lanciato appelli perché fossero deposte le armi. Poi, a 78 anni suonati, decise di affrontare la questione con la sua arma più celebre: il digiuno. Lo cominciò il 13 gennaio.
Il popolo indiano teme per la salute di Gandhi, il governo lo invita a smettere il digiuno ma il Mahatma non cede. Alla fine, il governo paga la somma dovuta. E i capi delle varie comunità assicurano che rinunceranno alla violenza. Ed è questo che Godse rimprovera a Gandhi. Però, prima di sparargli tre colpi di rivoltella, si inginocchia in segno di rispetto. Forse gli chiede perdono. Poi, approfittando della confusione, fugge infilandosi tra la folla. Ma viene individuato. La folla vuole linciarlo. Lui capisce che è meglio arrendersi alla polizia. Il 15 novembre del 1949 verrà giustiziato.
Trentasei anni dopo, tocca ad Indira Gandhi, figlia del primo premier indiano Jawarharial Nehru, e prima donna a ricoprire la carica di primo ministro. Fu uccisa il 31 ottobre del 1984 dalle due guardie del corpo sikh che vollero vendicare la brutale repressione ordinata all’inizio degli anni Ottanta dalla Gandhi contro il movimento rivoluzionario sikh che voleva l’indipendenza del Punjab indiano. L’esercito indiano aveva espugnato il Tempio sacro dei sikh, bombardandolo a tappeto, nel giorno in cui veniva ricordato il martirio del guru Arjan Dev Ji. Un affronto intollerabile.
La Gandhi era reduce da un faticoso giro elettorale nell’Orissa. Il mattino dopo, avvolta in un sari arancione, scese i tre gradini della residenza per raggiungere il giardino. Salutò le due guardie della sicurezza. Il più anziano, Benat Singh, 34 anni, impugnò la Walther P38 e le sparò tre colpi. L’altro, il ventunenne Satwant Singh vuotò il caricatore del suo mitra Sten, trenta pallottole. Sette pallottole colpirono l’addome della Gandhi, una decina il petto, alcuni il cuore. Morì sul colpo. L’assassinio scatenò uno tsunami di violenze in tutta l’India. Migliaia di sikh furono trucidati, sotto gli occhi indifferenti delle forze dell’ordine.
Sette anni dopo, il 21 maggio del 1991, a Sriperumbudur, nel Tamir Nadu, vicino a Chennai (un tempo Madras) pochi giorni prima delle elezioni negli stati del sud dell’India, stesso destino per il figlio di Indira, Rajiv Gandhi, ex premier, marito della italiana Sonia Maino. Un commando delle Tigri Tamil organizza un attentato suicida. Il programma prevedeva che l’auto di Rajiv si fermasse all’inizio del “sentiero della luce”, un percorso nella campagna attorno a Sriperumbudur. Rajiv scese dall’auto e cominciò a camminare verso il palco, dove avrebbe dovuto parlare.
Lungo la strada, fu fermato da sostenitori ed attivisti del Partito del Congresso, e anche da numerosi bambini. Poco dopo le dieci di sera, lo avvicinò una donna, Thenmuli Rajaratnam, nome di battaglia Dhanu, una militante delle Tigri Tamil. Thenmuli saluta Gandhi. Si china come per baciargli i piedi – gesto di grande riverenza. Ma innesca la cintura imbottita di esplosivo Rdx che teneva sotto il vestito. Gandhi, Thenmuli e 14 persone sono dilaniate dall’esplosione, altre 33 ferite. L’ordigno era zeppo di minuscole e letali biglie d’acciaio dello spessore di due millimetri, circa diecimila. Un fotografo scatta le immagini dell’attentato. Lui muore, le foto sono recuperate.
Su Google, alla voce “capi di Stato assassinati” c’è un lungo elenco alfabetico e l’avviso che riguardano 117 pagine. Date, nomi, cronache di sangue, morte, orrore. La politica degli assassini. Tel Aviv, 4 novembre 1995. Il premier israeliano Yitzhak Rabin, Premio Nobel 1994 per la Pace, stava partecipando ad una manifestazione in favore degli accordi di Oslo firmati due anni prima con Arafat alla Casa Bianca. Una folla immensa assiste alla sua morte: Yigal Amir, colono ebreo estremista e sionista di destra, lo attende nella piazza dei Re di Israele. Gli accordi di pace erano stati osteggiati dalla destra nazionalista e dai capi del Likud. Finito il comizio, Rabin scende dalla scalinata per raggiungere l’auto che lo attende. Amir, in mezzo alla folla, spara due colpi con una Beretta 84F semiautomatica. Rabin è colpito alla schiena. Un terzo colpo raggiunge una guardia del corpo. Amir piglierà l’ergastolo ma non si pentirà mai del suo gesto. La piazza cambierà nome: oggi è “kikar Rabin”.
Un anno dopo, tuttavia, la destra va al potere con Netanyahu. E il processo di pace sarà interrotto. Potremmo continuare così tanto da riempire un volume, altro che lo spazio di questo blog. I nomi di certe vittime li abbiamo già dimenticati. Per esempio, l’olandese leader dell’ultradestra Pim Fortuyn, liquidato a Hilversum nel 2002. O il primo ministro serbo Zoran Zjindjic, freddato da un cecchino nel 2003. O i cinque presidenti di Hait, l’ultimo dei quali, Jovenel Moise, fatto fuori nel luglio dello scorso anno. O Benazir Bhutto, prima donna pakistana a diventare premier, ammazzata dopo aver concluso un comizio elettorale quando non era più a capo del governo, il 27 dicembre del 2007: prima due colpi di pistola, poi un attentatore suicida si fa esplodere accanto all’auto. E’ strage: 27 morti, compresa la Bhutto e l’attentatore.
O Luis Donaldo Colosio, economista e leader del Partito Rivoluzionario, candidato alla presidenza messicana, falciato il 23 marzo 1994 a Tijuana da un killer che gli sparò alla tempia e all’addome. L’assassino fu catturato ma subito sorsero dei dubbi, perché l’uomo presentato alla stampa la prima volta non assomigliava a quello che era stato catturato. Si parlò di depistaggi di Stato. La geografia di questi attentati è pure geopolitica. Nei regimi autoritari ed in quelli totalitari, l’omicidio politico è camuffato dalla propaganda e dalla ragion di Stato. Nelle democrazie, entrano in ballo giochi più complessi: destabilizzare per conservare. L’ideologia progressista di Kennedy fu certamente la causa che portò alla sua eliminazione. Lo stesso Trump, pochi mesi fa, ha confessato d’aver paura dei comizi, perché potenzialmente pericolosi. Ma anche una tranquilla passeggiata nella notte può tramutarsi in una esecuzione.
Come capitò a Bors Nemtsov, ex vicepremier russo, oppositore liberale di Putin. Dopo aver cenato con la fidanzata Anna al Caffé Boscolo, nella Piazza Rossa, vuole fare quattro passi lungo il viale che costeggia le mura del Cremlino. Attraversando il ponte di Bolshoj Moskvoretsky, viene affiancato da un’auto. Nemtsov non ci fa caso. Il finestrino anteriore dalla parte del passeggero si abbassa. Spunta una pistola. Nemtsov è ucciso così, il 27 febbraio del 2015. Per tappargli la bocca. E impedirgli di presentare il suo dossier sulla corruzione e sulle sistematiche violazioni dei diritti umani, nonché un rapporto sullo stato delle cose in Crimea e nel Donbass.
Siamo partiti dalla morte di Shinzo Abe, siamo arrivati dalle parti delle nostre inquietudini.