La solidarietà dei privati che ancora ospita l'80 per cento degli sfollati presenti in Italia attende risposte e alternative nel sistema pubblico. Ma la Protezione civile prende tempo: "Priorità allo svuotamento degli hotel, poi vedremo se servono altri posti". Intanto i comuni chiedono al governo di cambiare paradigma e finanziare prima il sistema ordinario, cenerentola dell'accoglienza italiana
Quando gli ingressi registrati alle nostre frontiere sono ormai 150mila, a quattro mesi dall’inizio del conflitto l’Italia non ha ancora le idee chiare sul tipo di accoglienza da riservare ai profughi ucraini. Perché la soluzione dell’accoglienza diffusa in mano alla Protezione civile non ha mai convinto i comuni. “Gli ulteriori 15 mila posti in accoglienza diffusa non li capisco, perché non finanziare prima i progetti SAI dei Comuni?”, domanda Matteo Biffoni, sindaco di Prato e delegato all’Immigrazione dell’ANCI, l’associazione nazionale dei comuni italiani che ha appena posto la questione a ministero dell’Interno e Protezione civile. Una questione più che concreta, visto che i posti occupati nel sistema pubblico sono pochi, gli ucraini alloggiati negli alberghi ancora tutti lì e l’80 per cento di quelli arrivati in Italia resta a carico dei privati nonostante le difficoltà. Colpa della burocrazia, ma anche di un modello che la politica tiene sottodimensionato rispetto a quello dei centri di accoglienza straordinaria dove rimane il 70 per cento degli stranieri attualmente nel sistema.
Gli ucraini nel sistema pubblico sono circa 13 mila, di cui 1200 nel Sistema accoglienza e integrazione (SAI) e il resto nei Centri di accoglienza straordinaria (CAS). Altri 9 mila sono quelli alloggiati a spese della Protezione civile in strutture alberghiere, che costano allo Stato fino a 70 euro al giorno e ai quali è data priorità nei primi 15 mila posti finanziati nella cosiddetta accoglienza diffusa, sistemazioni indipendenti o presso famiglie private finanziate dalla stessa Protezione civile e gestite dagli enti del Terzo settore che erogano assistenza e servizi. Al netto di quanti hanno lasciato il nostro paese, il resto rimane ospite di amici e parenti ucraini e di tante famiglie, associazioni, parrocchie e comuni che si sono fatti carico delle incombenze e adesso vogliono risposte . Dopo quattro mesi sono in tanti a manifestare difficoltà o peggio l’impossibilità di rinnovare l’ospitalità offerta, come raccontato da ilfattoquotidiano.it. Finora la soluzione sembrava essere quella dei posti in accoglienza diffusa, quelli rimasti una volta sistemate le persone alloggiate negli alberghi e soprattutto gli ulteriori 15 mila posti previsti dal governo nel cosiddetto decreto Aiuti. Ma ad oggi i primi sono fermi, con il bando della Protezione civile scaduto ad aprile e le convenzioni col Terzo settore che iniziano adesso a vedere le prime firme. E per gli altri posti è ancora tutto da definire. Anzi, “diamo priorità allo svuotamento degli hotel e poi vedremo se serviranno altri posti“, fa sapere la Protezione civile.
“Ancora aspettiamo i primi 15mila posti, perché ragionare di altri?”, taglia corto Biffoni. “Perché farlo quando si potrebbero finanziare subito i posti SAI già proposti dai Comuni?”, e al governo propone “di ricorrere solo in seconda battuta ad altre forme di accoglienza, come appunto quella diffusa”. A ilfattoquotidiano.it ricorda che “al primo bando del ministero dell’Interno per ulteriori 3.530 posti in allargamento di progetti SAI esistenti, i comuni hanno risposto offrendone quasi 7 mila, e così i mille posti messi a bando per nuovi progetti SAI dove la disponibilità dei comuni è arrivata a 6mila posti”. Visti i ritardi sull’accoglienza diffusa, Biffoni ha buon gioco a far notare che “almeno i posti in allargamento di progetti esistenti sarebbero disponibili già in un paio di settimane”. Al contempo, a rallentare il primo bando sull’accoglienza diffusa sono stati proprio i comuni, ai quali spettava il rilascio del nulla osta agli enti del Terzo settore. E non si è trattato solo di burocrazia: “Noi lo avevamo detto che non tutti i Comuni sarebbero stati d’accordo”, commenta Biffoni, ammettendo che il nuovo percorso in mano alla Protezione civile non è stato gradito da tutti, anche per la priorità data a chi ancora sta negli hotel mentre molti amministratori locali sentivano l’esigenza di dare risposte al territorio.
Quanto al ruolo dei comuni nell’accoglienza diffusa, l’ANCI si smarca definitivamente. “Chi paga è la Protezione civile, quindi decideranno loro con gli enti del Terzo settore come gestire la cosa. I comuni danno solo il nulla osta”, dice Biffoni. E rilancia: “Se si tratta di mettere d’accordo Terzo settore e comuni allora il percorso di cui parliamo si chiama SAI”. Insomma, a quattro mesi dall’inizio dell’emergenza la palla torna al governo che dovrà risolvere la questione senza vanificare l’impegno della Protezione civile, ma ascoltando i comuni che altrimenti sanno come mettersi di traverso. Col cerino in mano restano per ora tante famiglie che attendono di sapere se la loro solidarietà avrà un sostegno e se ci sono alternative, a partire dalla possibilità di affidare i propri ospiti al sistema pubblico che per ora è preclusa in molte regioni. Con l’80 per cento degli ucraini ancora a carico dei privati, quella dell’accoglienza pubblica è una scommessa ancora da vincere. La stessa idea dell’accoglienza diffusa, con il Terzo settore che in una settimana ha offerto alla Protezione civile 24mila posti, di cui 17mila ammessi al bando, è una risposta al sottodimensionato sistema ordinario, quello dei progetti SAI gestiti dai comuni insieme agli enti non profit che nell’immediato non era in grado di assorbire gli arrivi ucraini. Degli attuali 89 mila stranieri di ogni nazionalità accolti dallo Stato, solo un terzo (29.528) è nel SAI, mentre gli altri sono nei CAS o nei Centri di prima accoglienza (CPA). Il SAI rappresenta l’unico percorso pensato per l’integrazione dello straniero, che dovrebbe approdare a questo tipo di accoglienza dopo un breve periodo nei CAS che la legge descrive come luogo di passaggio e non come alternativa vera e propria al sistema ordinario.
“La rete SAI comprende attualmente 1.800 comuni, una presenza diffusa che può essere ulteriormente ampliata”, sostiene Biffoni. Per quanto diffusa, è una presenza che resta a macchia di leopardo, con le regioni del Nord Est fanalino di coda. L’Italia chiede all’Unione europea una distribuzione più equa degli stranieri negli Stati membri, perché non obbligare anche i nostri comuni a farsi carico di una quota di accoglienza avviando progetti SAI? “Non sono per l’obbligatorietà, l’accoglienza va fatta con convinzione, è una scelta politica starne dentro“, risponde Biffoni. Che preferirebbe un sistema di premialità: “Soldi in più per i comuni che accolgono, assunzioni in più, sgravi fiscali per i cittadini”. Ma una legge non c’è, né risultano proposte e l’unico esempio resta “quanto fece il primo governo Renzi, forse in maniera un po’ spot, riconoscendo ai comuni 500 euro per ogni migrante accolto”. Nel 2021 sono transitate dal sistema SAI 42 mila persone, i posti sono in tutto 34 mila e non sono mai stati di più. Cifre ben distanti dalle esigenze di un’esodo come quello ucraino, peraltro formato soprattutto da donne e minori ai quali difficilmente possono rispondere contenitori come i CAS. “Il problema è che gli stranieri ci stanno troppo nei CAS, che devono servire a filtrare le persone che arrivano. Ma dopo i primi passaggi, la comprensione delle esigenze e la profilassi sanitaria serve un progetto che li prende per mano, di integrazione. Ma se ancora sette persone su dieci sono nei CAS è perché nel corso del tempo non c’è stata una progettazione che abbia consentito di seguire il sistema dei flussi”.