Ogni quattro anni, con le estati olimpiche a riempire giornali ed esultanze, spunta qualche atleta che dal semi anonimato passa alla gloria. Questione di minuti: di prestazioni più o meno perfette che valgono le medaglie ai Giochi e l’ingresso nella ristretta categoria degli sportivi che ce l’hanno fatta. Di solito succede nelle discipline minori, definite così a causa dell’insopportabile vizio di pesare l’importanza di uno sport in base al seguito di pubblico. Ma tant’è. Non è questo il punto. Fatto sta che da essere nessuno, diventi un Dio. Per qualche giorno. E approfitti della ribalta mediatica. E ripensi a tutti i sacrifici fatti. E partono i ringraziamenti. Fateci caso: il primo grazie di solito è per “il mio maestro, quello che ha creduto in me e mi ha spinto a continuare nonostante le difficoltà”. Ecco: i primi maestri, quelli che insegnano sport, che crescono uomini e donne per farli diventare campioni. Vogliamo raccontarli così: capire il loro modo di intendere la competizione, scoprire i loro metodi, conoscere i loro aneddoti, sapere da chi hanno imparato. Ci saranno maestri noti e meno noti, espressione di discipline con grande o poco seguito. Unico comune denominatore: loro sono lo sport che insegnano e che hanno contribuito a migliorare. (Pi.Gi.Ci.)
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“Ad Alessandria c’è da poco un piazzale dedicato a Giuseppe Cornara, scopritore di Gianni Rivera e mio primo maestro. Fu tennista e calciatore di Serie A, poi diventò un eccezionale talent scout di entrambi gli sport. Per me è stato fondamentale. Mi trasmise l’idea che il lavoro, la disciplina e la determinazione sono imprescindibili. Mi ha segnato fortemente nel carattere. Io ero certamente adatto a giocare a tennis, ma lui ha saputo esaltare le mie caratteristiche e aggiungerne altre”. Corrado Barazzutti, classe 1953, è stato uno dei tennisti italiani più forti di tutti i tempi. Da allenatore ha svolto il ruolo di capitano non giocatore della Nazionale italiana di Coppa Davis e di Fed Cup. Proprio con le ragazze ha vinto quattro titoli mondiali (2006, 2009, 2010 e 2013). In questo momento si dedica alla sua Scuola Tennis a due passi dal quartiere Eur di Roma.
“Il maestro Cornara era severo e pignolo e voleva che facessimo esattamente come voleva lui, anche nell’errore. Dovevi saper resistere al suo temperamento forte, una volta mi ha cacciato dal campo, spesso mi ha fatto piangere. Mi ha insegnato a giocare a tennis, a livello tecnico e tattico. Era avanti con i tempi e nessuno lo capiva, insegnava già allora il rovescio e il dritto a due mani. Li insegnava ai giocatori di seconda categoria così come ad Antonella Albini che è poi arrivata tra le top 10 italiane”.
Lei quando incontrò il tennis per la prima volta?
“Proprio ad Alessandria, dove mi ero trasferito da Udine per via del lavoro di papà che era nella polizia stradale. Giocavo nel cortile del mio condominio con gli altri bambini. Un vicino di casa un giorno tira fuori le racchette e ci fa vedere come si gioca. Poi in due siamo andati a giocare al circolo di tennis davanti a casa, quello sotto le tribune dello stadio Moccagatta”.
L’altro chi era?
“Il mio miglior amico, Roberto Lombardi. Sarebbe poi venuto a Roma con me, quando venni chiamato a giocare lì a 16 anni. Roberto diventò un buon giocatore e poi un ottimo dirigente. Abbiamo fatto insieme anche tante telecronache di partite, visto che si trasformò in giornalista”.
Continuò a confrontarsi con Cornara, una volta diventato giocatore di successo?
“Nei momenti decisivi della mia carriera l’ho sempre chiamato”.
Da allenatore cosa si è portato dietro degli insegnamenti del vecchio maestro?
“L’idea che per ottenere un risultato serva tanto tanto lavoro”.
È stato parecchi anni capitano non giocatore della Coppa Davis e della Fed Cup.
“Ma prima ho lavorato 12 anni nell’Accademia con ragazzi provenienti da tutto il mondo e fatto altre esperienze in Federazione. Inoltre ho studiato molto, ho scritto pure un libro di psicologia su come capire lo stato emotivo di un giocatore, che a volte può creare interferenze sulla performance sportiva. Insomma ho fatto la gavetta anche da allenatore”.
È tanto diverso fare il capitano e l’allenatore?
“Sì, perché da capitano devi gestire un gruppo, creare una squadra, scegliere i giocatori da mettere in campo. Per i giocatori azzurri ero un allenatore di passaggio”.
Di alcuni poi è diventato l’allenatore personale.
“Ho seguito come coach per più di tre anni la Schiavone e con lei ho potuto esprimere al meglio il tennis che ho in testa, trasmettendole tutto ciò che sentivo di questo sport. I risultati sono stati sorprendenti: ha vinto il Roland Garros, ha giocato un Master, oltre alle quattro vittorie in Fed Cup”.
E poi Fognini…
“Sì, nei mesi in cui è arrivata la sua vittoria più prestigiosa in carriera, quella a Montecarlo. Fognini aveva un grandissimo potenziale ma non era mai arrivato così in alto. È stata una grandissima soddisfazione”.
Fognini potrà diventare un bravo allenatore?
“Non è obbligatorio che un gran giocatore abbia la passione per diventare coach. A me è venuto naturale, è una cosa che sento dentro. A me piace insegnare ai bambini, proprio come faceva il maestro Cornaro”.
E la Schiavone oggi?
“Continua ad amare il tennis e sta lavorando molto bene a Milano”.
Oggi chi le piacerebbe allenare tra i professionisti?
“Dovessi fare un nome, direi quello del canadese Denis Shapovalov”.
Nel 1976 l’Italia vinse la storica Coppa Davis grazie a giocatori come lei, Panatta, Bertolucci e Zugarelli. Come è stato avere come capitano di quella squadra Nicola Pietrangeli?
“Avere un capitano che è stato il più grande giocatore italiano di tutti i tempi… beh, è qualcosa di unico. Pietrangeli era ed è una bandiera del tennis ancora oggi. È stato un buon capitano, in grado di trascinare giocatori e tifosi. Da bambino lo vedevo giocare in tv al circolo di Alessandria in una tv in bianco e nero. Era il mio idolo. Poi io giovane e lui anziano una volta l’ho anche battuto”.
Recentemente Pietrangeli ha dichiarato che “il padel è il trionfo delle pippe”. Lei che ne pensa?
“Nicola è sempre colorito nelle sue dichiarazioni. Io conosco il padel ma non ci gioco: sono al campo da tennis tutto il giorno e non ho tempo. Non capisco tuttavia il confronto tra i due sport, non capisco la polemica: sono cose diverse”.
Che differenze nota tra la sua generazione vincente e questa di Berrettini, Fognini, Sinner, Musetti e Sonego?
“In generale mi sembra che i ragazzi di oggi abbiano più possibilità e maggiori strumenti per riuscire nel tennis. Tanti circoli, tanti campi, psicologi, allenatori, fisioterapisti, maestri… Si trovano nelle condizioni ottimali. Nonostante tutto questo i risultati non sono scontati: segno che i tempi cambiano, ma il carattere del campione serve in ogni generazione”.