Il 5 luglio l’Algeria ha celebrato i suoi 60 anni di indipendenza nel modo peggiore possibile dal punto di vista dei diritti umani. Sono infatti almeno 266 gli attivisti di “Hirak”, il movimento di protesta nato nel 2019 per denunciare la corruzione e chiedere un profondo cambiamento politico, in carcere per aver esercitato i loro diritti alla libertà di espressione e alla libertà di manifestazione. Quel numero comprende sia coloro che si trovano in detenzione preventiva, spesso da lungo tempo, che i prigionieri già condannati a pene che arrivano fino a cinque anni per accuse del tutto vaghe, se non inventate di sana pianta, come minaccia alla sicurezza nazionale, minaccia all’unità nazionale, offesa a pubblico ufficiale, incitamento a rivolta non armata, diffusione di notizie false e terrorismo.

Almeno quattro prigionieri rischiano ulteriori condanne o sono stati ulteriormente condannati per accuse formulate nei loro confronti quando erano già in carcere. Ad esempio Mohad Gasmi, arrestato l’8 giugno 2020 e condannato a cinque anni per un post su Facebook che costituiva “apologia del terrorismo”, è stato ulteriormente accusato di reati collegati alle sue attività in favore dell’ambiente e condannato ad altri tre anni. Il giornalista Merzoug Touati, già condannato a un anno per incitamento a rivolta non armata e minaccia all’unità nazionale, è stato condannato a un ulteriore anno il 29 maggio 2022. Scarcerato il 20 giugno a seguito di una grazia presidenziale, una settimana dopo è stato nuovamente condannato a un anno.

Poi c’è chi è entrato in carcere vivo e ne è uscito morto: come Hakim Debbazi, 55 anni, padre di tre figli. Era in detenzione preventiva dal febbraio 2022 per aver condiviso un post su Facebook che invitava a prendere parte a una manifestazione in occasione del terzo anniversario della nascita di “Hirak”. Le accuse a suo carico erano quelle di incitamento a rivolta non armata, offesa a pubblico ufficiale e minaccia alla sicurezza nazionale. “Erano”, perché Debbazi è morto il 24 aprile. Poco prima di morire, l’uomo aveva informato Zakiya Sadeg, sua zia nonché avvocata, che aveva iniziato ad avvertire dolori al petto e difficoltà respiratorie. Era detenuto in una cella non ventilata e piena di fumatori. Le autorità algerine hanno liquidato la sua morte come frutto di cause naturali.

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