Tutti i gruppi della magistratura hanno scelto i cavalli su cui puntare. Ma sui piani della politica giudiziaria, in uno dei due collegi per i pm, pesa l'incognita di una possibile discesa in campo del procuratore di Catanzaro, volto simbolo della lotta alla 'ndrangheta appena sconfitto nella corsa alla Dna: una candidatura farebbe probabilmente il pieno di voti, costringendo uno dei due vincitori designati a rinunciare a un seggio che danno già per certo. E tra i membri eletti dal Parlamento c'è anche l'opzione che conduce all'esponente dei 5 stelle
La consiliatura più tormentata di sempre è arrivata all’ultima curva. Il prossimo 24 settembre, a quattro anni esatti dall’insediamento, il Consiglio superiore della magistratura eletto a luglio 2018 e segnato dallo scandalo Palamara terminerà il suo mandato. Pochi giorni prima, sabato 18 e domenica 19, i magistrati di tutta Italia voteranno per eleggere i membri “togati” del nuovo Csm, da cui ci si attende una sorta di rigenerazione morale – invocata più volte dal capo dello Stato – dopo lo scandalo che ha imbarazzato il mondo della magistratura. Il quadro delle candidature, in teoria, è al completo: tutte le correnti, ognuna coi propri metodi, hanno scelto i cavalli su cui puntare nei sette nuovi collegi definiti dalla riforma della Guardasigilli Marta Cartabia. Ma sui piani dei professionisti della politica giudiziaria pesa un’incognita grossa come una casa. Da giorni, infatti, nell’ambiente si parla con insistenza della possibile discesa in campo (da indipendente) di Nicola Gratteri, procuratore capo di Catanzaro e volto simbolo della lotta alla ‘ndrangheta. Il quale, peraltro, non più di due mesi fa ha subito un pesante smacco dallo stesso Csm, che gli ha preferito Giovanni Melillo come capo della Direzione nazionale antimafia. Una scelta che il consigliere Nino Di Matteo, anche lui ex pm antimafia, ha definito “un errore” capace di creare quelle “condizioni di isolamento istituzionale che in passato hanno costituito il terreno più fertile per omicidi e stragi”.
La carta Gratteri – A quanto risulta al fattoquotidiano.it, a chiedere a Gratteri di candidarsi è stato un gruppo di magistrati noti per la loro indipendenza: molti, infatti, non sono iscritti ad alcuna corrente. Un pressing durato settimane a cui il procuratore, dopo lunga riflessione, avrebbe infine risposto di no. Ma la porta non è ancora chiusa: il termine per presentare le candidature scade giovedì 21 luglio, e per cambiare idea basta mandare una pec all’Ufficio elettorale centrale. La missione, insomma, non è impossibile, anche se gli stessi promotori la definiscono “molto difficile“: di sicuro il pm è tentato, e fino a pochi giorni fa, secondo chi gli è vicino, era ancora in piena fase di riflessione. A tifare per un dietrofront sono in molti: in primis le migliaia di pubblici ministeri del centro-sud che sperano di non essere rappresentati da un collega iscritto a una corrente. Già, perché un’eventuale corsa di Gratteri ribalterebbe gli equilibri di forze nel secondo dei due collegi riservati alla magistratura requirente, che comprende Sicilia, Campania, Calabria, Puglia, Abruzzo, Basilicata e Marche. In teoria, in base al sistema maggioritario binominale voluto da Cartabia – assai criticato dagli addetti ai lavori – i vincitori designati sono i due candidati dei gruppi più forti: Maurizio Carbone, procuratore aggiunto di Taranto, per i progressisti di Area e Dario Scaletta, pm a Palermo, per i conservatori di Magistratura indipendente. Ma se Gratteri scendesse in campo, la sua corsa – come quella di Di Matteo alle suppletive del 2019 – farebbe probabilmente il pieno di voti, costringendo uno dei due a rinunciare a un seggio che danno già per conquistato. Perciò i quadri delle correnti tifano perché il capo dei pm di Catanzaro resti inamovibile nella sua decisione.
La partita dei laici – Poi c’è la partita parallela: quella dei componenti “laici“, eletti dal Parlamento tra gli avvocati con almeno 15 anni di esperienza e i professori universitari ordinari in materie giuridiche. A sceglierli saranno le Camere riunite: la prima convocazione è fissata al 21 settembre, tre giorni dopo le elezioni dei togati, ma per arrivare a un accordo di maggioranza (è necessario un quorum dei tre quinti) potrebbero volerci mesi. La novità è che le poltrone da riempire saranno 10 e non più 8: un numero innalzato dalla riforma del Csm approvata a giugno, così come quello dei togati, che passano da 16 a 20. E sarà interessante osservare le mosse dal Movimento 5 Stelle: quattro anni fa, in pieno governo gialloverde, i grillini si affidarono agli iscritti su Rousseau, che scelsero tre tecnici (i professori Alberto Benedetti, Filippo Donati e Fulvio Gigliotti). Stavolta invece è probabile che i gruppi parlamentari si orientino su nomi più politici: il nome “principe” è quello dell’ex ministro Alfonso Bonafede, avvocato civilista iscritto all’ordine da 16 anni (uno in più del necessario). Il punto interrogativo, però, è se i pentastellati a settembre saranno ancora parte della maggioranza: se uscissero dal governo, diventerebbe molto difficile per loro confermare i tre membri attuali (considerato anche il ridimensionamento del gruppo parlamentare dopo la scissione di Luigi Di Maio). E a giocare un ruolo saranno anche le altre nomine parlamentari in programma nei prossimi mesi, a partire dal Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa (l’equivalente del Csm per i giudici di Tar e Consiglio di Stato), dove potrebbero trovar posto gli aspiranti laici “delusi”.
Gli ultimi impegni di Palazzo dei Marescialli – Il Csm che sta per sciogliersi ha fatto registrare il record assoluto di consiglieri in carica nei quattro anni di consiliatura: ben 31. Dei 24 che erano stati eletti nel 2018, infatti, in sei (Antonio Lepre, Luigi Spina, Gianluigi Morlini, Corrado Cartoni, Marco Mancinetti e Paolo Criscuoli) sono stati costretti a dimettersi dagli strascichi dello scandalo Palamara: al loro posto sono subentrati Di Matteo, Giuseppe Marra, Ilaria Pepe, Antonio D’Amato, Elisabetta Chinaglia e Carmelo Celentano. Poi, a ottobre 2020, palazzo dei Marescialli ha votato per estromettere Piercamillo Davigo a causa del suo pensionamento dalla magistratura per raggiunti limiti di età: al suo posto è subentrata Tiziana Balduini. Sul tavolo del plenum restano ancora due nomine di una certa importanza: quella del procuratore di Genova (il candidato unico proposto dalla quinta Commissione è Nicola Piacente, attuale procuratore di Como e già procuratore aggiunto nel capoluogo ligure) e quella del procuratore di Palermo, per cui il favorito assoluto è l’attuale capo dei pm di Messina Maurizio De Lucia (vicino ai progressisti di Area) sfidato da due interni, la procuratrice aggiunta Marzia Sabella e il capo della Dda Paolo Guido. Poi ci saranno da scegliere i nuovi sostituti procuratori della Direzione nazionale antimafia: tra i nomi più noti in lizza l’ex procuratore capo di Firenze Giuseppe Creazzo (trasferitosi alla procura minorile di Reggio Calabria) e l’ex pm milanese del caso Ruby, Antonio Sangermano.