Ambiente & Veleni

Siccità, in Italia utilizzato appena il 4% delle acque reflue. Con un riuso corretto si potrebbe soddisfare il 45% del fabbisogno nazionale

Ogni anno l'Italia utilizza 200 milioni di metri cubi di acque depurate, un terzo della Spagna, pur avendo impianti all'avanguardia. L'anno prossimo entra in vigore il nuovo regolamento europeo che spinge il riutilizzo ma ci sono ancora nodi irrisolti come chi pagherà gli extra-costi tra gestori degli impianti, cittadini e agricoltori

Depurare gli scarichi finiti in fognatura in modo da renderli compatibili con l’irrigazione dei campi o con scopi industriali. In qualche zona del Paese, soprattutto al Nord, già si fa da anni. Ma la situazione attuale di siccità che mette in ginocchio molti agricoltori probabilmente darà una spinta al riutilizzo delle acque reflue trattate. Tanto più che nel 2020 l’Unione europea ha adottato un regolamento per il riutilizzo in agricoltura, stabilendo i livelli minimi di qualità da rispettare. Il regolamento dovrà essere applicato nei vari Stati membri a partire da giugno 2023, ma a meno di un anno dal via restano ancora diversi nodi da risolvere, come chi si sobbarcherà gli extra-costi per rendere l’acqua in uscita dai depuratori adatta a far crescere frutta e verdura.

La situazione in Italia
Recuperare acque reflue per scopi agricoli o industriali in Italia non è una novità. Un decreto ministeriale stabilisce i limiti da rispettare sin dal 2003, imponendo alcuni parametri, ad esempio su indicatori di contaminanti patogeni, affini a quelli della classe di più alta qualità prevista oggi dal regolamento europeo, che definisce classi diverse a seconda del tipo di coltura e del tipo di irrigazione. Non siamo il paese europeo che fa meglio in termini di quantità di reflui riutilizzati, ma abbiamo degli impianti che sono stati pionieristici. Come a Milano, dove i depuratori di Nosedo e San Rocco forniscono 90 milioni di metri cubi l’anno di acque depurate da utilizzare a fini irrigui nei campi intorno al capoluogo lombardo. E come gli impianti in provincia di Livorno che forniscono fino a 4 milioni di metri cubi di acqua depurata da utilizzare nell’impianto del gruppo Solvay di Rosignano. Secondo una stima fatta nel 2020 da Laboratorio Ref Ricerche, nel nostro Paese vengono in tutto destinate al riutilizzo diretto e indiretto, tra usi irriguo e industriale, 200 milioni di metri cubi di acque depurate.

L’ultima relazione annuale di Arera (Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente) parla di un 23% dei reflui potenzialmente destinabili al riuso, ma ne viene effettivamente riutilizzato solo il 4%, perlopiù nelle regioni del Nord e soprattutto a fini agricoli. In particolare il dato fa riferimento al riuso diretto, quello che verrà normato dal regolamento europeo: “Sono le acque trattate immesse in un reticolo specificatamente dedicato all’uso agricolo – spiega Manuela Antonelli, docente di Trattamento delle acque di approvvigionamento al Politecnico di Milano -. Va però considerato che in più c’è anche un riuso indiretto, cioè quello delle acque immesse dopo la depurazione in un corpo idrico esistente, per esempio un fiume, da cui poi a valle qualcuno potrà fare dei prelievi a fini irrigui”.

Numeri leggermente diversi, ma che non cambiano la sostanza delle cose, li ha dati di recente Utilitalia, la federazione delle imprese idriche, ambientali ed energetiche: nell’indagine “Il riutilizzo delle acque reflue in Italia”, presentata l’11 luglio a Napoli, ha stimato che nel nostro Paese esistono 79 impianti in grado di fornire acque depurate per il riuso, con una potenzialità complessiva, tra riuso diretto e indiretto, di 475 milioni di metri cubi all’anno, pari al 5% dei nove miliardi di metri cubi in uscita dai depuratori. In particolare, 37 impianti forniscono acqua a uso irriguo indiretto, dieci a uso irriguo diretto, nove per scopi industriali o altro, mentre per 23 impianti non è stata definita una specifica utilizzazione finale, “a dimostrazione – notano da Utilitalia – delle incertezze e dei dubbi ancora presenti a livello di utilizzatori finali potenziali”.

Tra i fattori che sinora hanno limitato l’utilizzo diretto delle acque reflue, il fatto che per raggiungere la depurazione richiesta sono necessarie integrazioni degli impianti esistenti, soprattutto potenziando disinfezione e filtrazione, che comportano incrementi nei costi e nei consumi di energia rispetto a una depurazione ‘standard’, cioè destinata allo scarico in ambiente: “Tali fattori incidono sulla domanda, visto che spesso prelevare acqua dalla falda o da un fiume è mediamente meno costoso – dice Francesco Fatone, docente di Impianti chimici all’università Politecnica della Marche -. Per stabilire quando è vantaggioso riutilizzare acque reflue depurate bisogna fare per ogni singolo caso una valutazione sulla sostenibilità tecnica, economica e ambientale, ed avere un approccio basato sul rischio sanitario e ambientale, lungo l’intera catena del valore”.

La situazione italiana si inserisce in un contesto europeo dove ci sono altri Paesi, soprattutto sul Mediterraneo, che si sono dotati nel tempo di misure sul riuso, come Spagna e Francia, che secondo i dati dell’Agenzia europea dell’Ambiente riutilizzano rispettivamente circa 600 e 400 milioni di metri cubi di acque depurate all’anno, un dato in questo caso da confrontare con i meno di 100 milioni di metri cubi attribuiti dall’agenzia all’Italia come riuso diretto. quindi più di noi. E come Cipro, dove viene riutilizzata quasi tutta l’acqua proveniente da depurazione.

Secondo alcuni studi citati da Laboratorio Ref Ricerche, molto si può ancora fare: il riutilizzo potrebbe coprire il 20% della domanda irrigua in Spagna e Portogallo, e addirittura il 45% in Italia e Francia. Così l’Unione europea ha adottato un regolamento ad hoc, in modo che il riutilizzo delle acque reflue si affianchi ad altri interventi, come l’aumento della capacità di accumulo degli invasi e l’efficientamento dei sistemi irrigui. Tutte misure necessarie a contrastare l’erosione delle risorse idriche causata da pressione antropica e cambiamenti climatici, che hanno reso sempre più frequenti i periodi di siccità come quello in corso.

Il fattore psicologico
Il regolamento ha come obiettivo anche quello di creare regole comuni in modo da rimuovere gli ostacoli alla libera circolazione dei prodotti agricoli irrigati con acque trattate. E invita gli stati membri a condurre campagne di comunicazione e sensibilizzazione per incentivare l’uso in agricoltura di un’acqua che viene percepita come di qualità inferiore. Il fattore psicologico dei consumatori, del resto, è un tema da non sottovalutare: “Per acque reflue si intendono tutti gli scarichi di casa, quelli assimilabili, e le acque meteoriche che quando piove finiscono nella fognatura attraverso i tombini – spiega la professoressa Antonelli -. Ci possono essere dei pregiudizi, ma le assicuro che il livello di qualità che viene raggiunto con i trattamenti è nella grande maggioranza dei casi elevato. Una volta depurata nel modo opportuno, quest’acqua potrebbe essere utilizzata anche a fini potabili, come del resto accade in alcuni paesi, tra cui Stati Uniti e Israele”.

I nodi da risolvere
Tra i nodi da risolvere ci sono l’analisi sistemica e la corretta gestione del rischio sanitario e ambientale, in modo da evitare che ai campi da irrigare arrivi acqua di qualità non conforme alle regole: “Non ci sono al momento normative che contengano le linee guida da applicare – spiega il professor Fatone –. A una loro definizione sta lavorando il Joint Research Center della Commissione europea. Il punto è che per ogni sistema di riutilizzo di acque reflue bisogna valutare il rischio sanitario e ambientale, minimizzarlo e predisporre un adeguato sistema di monitoraggio e gestione, anche supportato dalla digitalizzazione delle infrastrutture”. Non secondarie sono poi le questioni della governance integrata e della tariffazione, cioè di chi pagherà gli extracosti necessari al riutilizzo diretto e al monitoraggio rispetto a una depurazione standard di acqua da immettere per esempio in un fiume: “Nella filiera del riutilizzo – dice Fatone – sono coinvolti principalmente tre attori: l’utility che gestisce l’impianto di depurazione, il consorzio di bonifica che gestisce l’infrastruttura irrigua e l’agricoltore che utilizza l’acqua depurata per irrigare il suo campo e coltivare prodotti con almeno la stessa, o migliore, quantità e qualità. Tra gli aspetti su cui questi tre attori devono trovare un accordo c’è quello della regolazione e tariffazione: eventuali extracosti verranno messi tutti in bolletta, tenendo conto dei benefici ambientali e collettivi che il riutilizzo può portare, e quindi saranno totalmente a carico di tutti i cittadini, o deve esserci anche un contributo diretto di altri attori direttamente coinvolti nella gestione? Si può pensare a un sistema di incentivi pubblici commisurato alla locale sostenibilità ambientale ed al vantaggio comune di questa pratica circolare?”.

I timori degli agricoltori
Tra chi potrebbe essere chiamato a contribuire a coprire gli extracosti di depurazione ci sono gli agricoltori in quanto utilizzatori finali dell’acqua depurata. “Una soluzione del genere confliggerebbe col principio del ‘chi inquina paga’, in questo caso gli utenti urbani”, sostiene Stefano Masini, responsabile Ambiente e territorio di Coldiretti. “L’agricoltura potrà invece contribuire ai costi di gestione del sistema irriguo”. Tra i timori degli agricoltori anche i rischi che il riutilizzo delle acque depurate può comportare, considerato che il nostro Paese non sempre ha brillato in tema di collettamento, fognature e depurazione: “A livello europeo sono state aperte già quattro procedure di infrazione a carico dell’Italia. Per aumentare il riuso delle acque depurate in agricoltura occorrono importanti politiche di investimento”.

@gigi_gno