Incredulo per la montagna di soldi che il dopo terremoto della Campania e della Basilicata ingoiava senza che si vedesse l’ombra di un mutamento delle condizioni di vita, immaginai che l’unico modo per scorticare quella massa di mangiatori di prebende, affittacamere della coscienza collettiva, piccoli podestà a cui tutto era concesso, fosse bussare alle porte di un grande giornale ed elencare le malefatte, gli sprechi, le ruberie.

Così feci. Misi piede a Repubblica la prima volta come denunciante degli sprechi e delle ruberie. Qualche tempo dopo mi ritrovai redattore di quel giornale, incaricato dal direttore di seguire i lavori della commissione parlamentare d’inchiesta sugli scandali e le ruberie del terremoto in Campania e Basilicata.

Nelle pieghe di questi dettagli la misura di quel gigante del giornalismo che è stato Eugenio Scalfari. Il direttore di un grande giornale nazionale, a quel tempo (siamo a cavallo tra gli anni 80 e 90) influente, coraggioso, veloce a percepire l’umore della società, affidava a un giovanotto digiuno sia di esperienza che di competenze, un incarico delicato e un tema che negli anni avrebbe messo a soqquadro le classi dirigenti dei partiti dominanti, in special modo la Dc e il Psi.

Di Scalfari tanti di noi sanno molto, e tanto di quel molto l’hanno appreso leggendo i suoi articoli, gli editoriali e i giornali e i settimanali che ha diretto e anche, per i fortunati come me, ascoltando le sue cosiddette “messe cantate”, le interminabili riunioni di redazione del mattino dove fustigava o premiava chi di noi – a suo avviso – avesse meritato.

Scalfari è stato direttore, dittatore, padre padrone ma anche consigliere, papà illuminato, collega prestigioso dal quale raccogliere ogni consiglio speciale (“la toilette è il posto dove si raccolgono meravigliose confidenze. Quindi non avere fretta di pisciare. Resta e ascolta, chiedi, saluta quando ti dirigi nei cessi di Montecitorio, che sono anche molto spaziosi. Vedrai quante notizie porterai a casa”), o subire bacchettate di varia entità.

Ho avuto la fortuna di vederlo all’opera nei migliori anni della sua vita professionale, con un giornale così grande (avevamo sorpassato il Corriere) il cui successo doveva fare i conti solo con la limitatezza della stampa tipografica (poco oltre il milione delle copie potevamo riuscire a stampare il giovedì notte per il venerdì, giorno di massima diffusione).

Un giornale che stava avanti un passo a tutti gli altri. Incursore micidiale e travolgente.

Di inchiostro l’anima di Scalfari, di inchiostro la sua spada. Ha raccontato un secolo e dieci mondi diversi.

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