L’ateo che dialogava con dio. Se Voltaire o Diderot, o anche solo Mario Pannunzio, fossero stati catapultati sulla terra, in libreria, nei primi due decenni del duemila, avrebbero scorso il loro pupillo Eugenio Scalfari, dismessi i panni di direttore de LaRepubblica, intento a costruire ponti e pontificare con il pontefice. L’illuminista Scalfari, la terza via giornalistica e culturale tra i due grandi dogmi ideologici del Novecento, aveva intavolato un discorso confidenziale, personale, quasi intimo con papa Francesco. Poi fa niente se dal Vaticano hanno smentito quei dialoghi, quei confronti, quegli scambi di parole tra i due. Fede e laicità si sono messe anche solo teoreticamente a confronto che nemmeno il compromesso storico. Il non credente, che non prende appunti e non registra la voce pietrina, interroga “il” credente per antonomasia. Siamo nel 2013 tre le domande cruciali di Eugenio a Francesco: chi non ha fede e pecca verrà perdonato da Dio? Pensare per verità relative e soggettive è un errore o un peccato per la Chiesa? Se scompare la nostra specie scomparirà anche il pensiero di pensare Dio? Il Papa risponde, Scalfari rilancia e poi i due si incontrano (chissà?) e ne nasce un dialogo acceso, estremamente vivido, addirittura sacro. Poi ancora il tutto diventa un libro, edito da Einaudi, con gli interventi di filosofi, teologi, sacerdoti, giuristi. Insomma, dove poté poi Fabio Fazio al principio fu Scalfari. Del resto la bibliografia dell’ex direttore e fondatore de LaRepubblica è una sorta di continua ascesa verso un ulteriore sorta di ascesi verso la (propria) trascendenza. Il fondatore del quotidiano che dal 1976, e per almeno un ventennio, mise in scacco lo storico Corriere della Sera, iniziò a pubblicare saggi d’assalto, reportage d’inchiesta, tra il finire degli anni cinquanta e i primi settanta, soprattutto sulla rapace baronia del neocapitalismo italiano, concentrandosi sui settori energetici – elettricità, petrolio – fino al caso sui generis di Enrico Mattei. Eccolo poi con Giuseppe Turani nel 1974 per l’editore Feltrinelli ringhiare con quel loro Razza padrona – Storia della borghesia di stato, manifesto esplicativo di quella nuova categoria imprenditoriale dell’industria italiana: il nuovo ceto della cosiddetta “borghesia di stato”, classe dirigente pronta col cappello davanti ai politici di turno. Nel ’76, appunto, Scalfari fonda Repubblica e anche il suo apporto letterario si trasforma. Nel 1986 pubblica per Mondadori il celeberrimo La sera andavamo in via Veneto – Storia di un gruppo da Il Mondo a LaRepubblica. Una giaculatoria di nomi, cognomi, abitudini, passeggiate, incontri in strada e al tavolo di quella zona di Roma che tra star di Cinecittà e paparazzi divenne anche spazio agito e abitato dai giornalisti liberal dell’area laica prima legata al Mondo di Pannunzio poi proprio a LaRepubblica di Scalfari stesso. Lo stile è quello del memoir, anche se il tempo passato è pochissimo rispetto ai fatti raccontati, quasi a dipingersi già epopea e leggenda del paese quando il quotidiano diretto da Scalfari aveva compiuto nemmeno dieci anni. È il primo passo verso una letteratura autocelebrativa che trionfa con Incontro con Io (Rizzoli-Einaudi) nel 1994 dove al centro di un’osservazione filosofica del presente Scalfari si pone domande sulla Ragione, sul narcisismo, e ovviamente sull’Io (suo, di Scalfari, soprattutto). “Ma voi pretendete anche di sapere e di sapervi spiegare chi siete, qual è il vostro rapporto con l’universo ed esso universo a quali leggi obbedisca, quale sia la sua sostanza e la sua intima organizzazione”. Un atteggiamento intellettuale, quello adottato nei propri libri da Scalfari, che provocò in quei birboni del settimanale satirico Cuore la pubblicazione bonaria di alcune puntate della storia rubrica Mai più senza dove si utilizzavano i volumi di Scalfari sia per pareggiare i tavoli con una gamba più corta, sia appoggiarli sul capo nel tentativo di un corso rapido di postura. Il direttore di Repubblica non la prese malissimo, anzi. È proprio con l’inizio degli anni duemila che Scalfari inizia ad esplorare, con autentica originalità, questo strano, mai esibito filo rosso che lega nonostante la distanza il non credente dal credente, il laico dal religioso. Nel 2008 L’uomo che non credeva in Dio torna ad essere sì un riassunto della propria vita oramai da anziano dell’autore, ma conserva la particolarità di recuperare ogni dato della memoria in funzione di una più ampia e razionale meditazione sugli aspetti della vita. Kant, Gesù, Leopardi, Nice, Heidegger, Italo Calvino. E poi ancora il tasto su cui Scalfari batté più volte: la moralità della politica e dei politici, nella fattispecie di Ugo La Malfa ed Enrico Berlinguer. Infine il pensiero dell’uomo razionale che volge verso la morte aiutato dai contrafforti illuministi e dalla circolarità della beatitudine derivante dal discorso di Sant’Agostino. È in questa raffinata e dialettica commistione tra fede e materia, sacralità del credere e profanazione dell’essere, che una tale figura intellettuale del Novecento italiano non poteva che compiere lo storico abbattimento dell’ultimo tabù, quello di un giornalista che dialoga con un papa.
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