L'attrice conosce il linguaggio del cinema e le sue variabili poetiche ed industriali; allo stesso tempo però non pare proprio il presidente di giuria che tira la volata al piccolo film kazako (armeno, azero, venezuelano, nepalese ecc..). Comunque vada al Lido sarà un’altra star da cinque nomination all’Oscar e uno vinto
Alzi la mano chi ricorda Julianne Moore con acconciatura vagamente mossa in Short Cuts, altrimenti detto America Oggi (1993), mentre dialoga con il “marito” Matthew Modine e in un crescendo animato e incazzato si sfila la gonna per pulirla e in un amen riappare imbestialita a figura intera con il pube scoperto e per parecchi secondi? Dio abbia in gloria Robert Altman per aver scoperto, e fatto esordire al cinema, la Moore, oggi 61enne, presidente di giuria della prossima edizione della Mostra d’arte cinematografica di Venezia 2022.
Un’attrice teatrale off-Broadway catapultata in mezzo al gotha impegnaticcio dell’epoca (Tim Robbins, Andie MacDowell, Robert Downey Jr., ecc…) che s’impone per grinta recitativa (è una pittrice) e, sempre si possa ancora dire, perché nervosamente, pedantemente, irresolubilmente bella. Tralasciando incoscientemente la trasposizione di Zio Vanya in pellicola da Louis Malle, Moore in un paio d’anni centra subito l’anello doppio della star popolare come della tesa interprete art house. Todd Haynes la vuole subito per Safe, sfruttando una sorta di fragilità in controluce del corpo mooriano che si perpetuerà come marchio di fabbrica, silhouette scavata e nervosa, nei tre decenni a venire (vedi, ad esempio, Still Alice nel 2014, con la professoressa affetta da Alzheimer, ruolo che le fa vincere un Oscar come miglior attrice protagonista); oppure ecco la tenera solarità materna in Nine Months con Hugh Grant sotto l’egida di Chris Columbus.
Siamo solo nel 1995 e siamo già all’apice (prolungato) di una carriera: duetta con Stallone e Banderas in Assassins dei Wachowski; è la dottoressa Harding nel secondo titolo della serie di Jurassic Park; recita con un altro big da fascia alta come Anthony Hopkins in Surviving Picasso. A questo punto per la Moore appena 34enne si apre una lunga ed eterogenea filmografia di quasi 50 film. A noi allora piace ricordarla in alcuni ruoli originali. Tralasciando volontariamente The big Lebowski dove non è chiaramente lei il centro del discorso, eccola in pornoattrice navigata e materna, ma anche molto cocainomane e un filo distrutta, nel Boogie Nights di Paul Thomas Anderson; è l’altalenante figura femminile in un febbrile, concitato, tragico triangolo nell’Inghilterra di fine anni quaranta con Ralph Fiennes e Stephen Rea in Fine di una storia di Neil Jordan; è la casalinga apparentemente perfetta anni cinquanta del capolavoro Lontano dal paradiso sempre di Haynes.
Ogni volta un turbinio di emozioni, di sentimenti, di cuore e di anima che tentano di superare gli ostacoli del conformismo e della realtà. Moore non disdegna il blockbuster (Hunger Games, Kingsman), poi si mette comicamente in gioco in una commedia campione di incassi come Crazy stupid love, infine si ritaglia nuovamente la parte della scheggia antisistema che non t’aspetti come quando in Freeheld fa coppia lesbica con Elliott Page (all’epoca ancora Ellen) e in pratica mostra la necessità di parità di diritti per le coppie di fatto non eterosessuali. E ancora: come se non bastasse torna ad essere un metafisico doppio combinato di gemelle in Suburbicon di Clooney ma sa anche partecipare alle classiche sfilate di attori al doppiaggio per un cartone animato (Spirit, 2021). Metterla a capo di una giuria festivaliera comporta un vantaggio e uno svantaggio: Moore conosce il linguaggio del cinema e le sue variabili poetiche ed industriali; allo stesso tempo però non pare proprio il presidente di giuria che tira la volata al piccolo film kazako (armeno, azero, venezuelano, nepalese ecc..). Comunque vada al Lido sarà un’altra star da cinque nomination all’Oscar. Scusate se è poco.