RAGAZZE TROPPO CURIOSE - 2/3
Probabilmente arriviamo un po’ tardi rispetto alla critica blasonata, e al primo capitolo (già uscito) di una possibile lunga saga, ma Ragazze troppo curiose (Bompiani) di Nino Motta è un giallo che ci intriga assai. Va bene, la ricetta di genere dei grandi guru Mondadori – ci metta del sesso, o qualcosa di sensuale, e del cibo – è chiara. Programmaticità che però, in questa diagonale d’indagine femminile ammaliante e accaldata su un cold case siracusano, si dirada fin quasi editorialmente a scomparire, per una tessitura di genere ordinata, gustosa, finanche leziosa. La quasi cinquantenne Rosa, filologa petrarchesca ancora professionalmente penzolante tra i garbugli di truccati concorsi accademici italiani, matrimonio alle spalle con figlia grande, fa coppia con mamma anziana Evelina nell’indagare casi di omicidio sepolti dall’oblio e da verità mai del tutto confermate. Tocca qui ad un doppio caso di morti ammazzati datato 1974 avvenuto, appunto, nella terra d’origine del duo di donne, la Sicilia Orientale: un antiquario ammanicato con frequentazioni neofasciste e mafiose e poco dopo una savia giornalista che sembra aver fatto luce proprio sull’omicidio dell’antiquario. Mamma e figlia partono da Milano, giungono a Siracusa, angolo, anzi quadrato di Ortigia, e lento pede seguono le direttive metodologiche di Rosa (“ristabilire una verità o avvicinarsi alla verità storica” e lectio difficilior) tra testimonianze orali e studio dei materiali d’archivio sul caso, per arrivare ad un dunque che pacificamente si afferma senza spargimenti di sangue. Ragazze troppo curiose ha l’andazzo rallentato dalle lunghe golose e goduriose digestioni post prandiali di arancini, pizze, mandorle, budini e gelati; la classica stoffa linguistica da reiterazione deduttiva; la stuzzicante malia dell’inedita coppia e di quel loro bizzarro dialogare fitto. Motta, all’anagrafe Paolo Di Stefano, si diverte un mondo a sottrarre diabolicamente le solite solfe da finto impegno politico nella traiettoria autore/protagonista del racconto, come la retorica letteraria a buon mercato di un genere al limite dell’indigestione, innestando altrettanto diabolicamente pericolosi e scorretti testacoda come la disinvoltura con i maschi adottata da Rosa, l’affermarsi di un sistema sociale tradizionale in una Sicilia d’altri tempi, nonché l’irrilevanza narrativa di maschi balbuzienti, toy boy o banalmente “avulsi”. Con disegnino filologico sul fondo. Voto: 8