Nel gennaio del 2020 due diversi filoni di indagini del Gico e dei Ros, coordinate dal procuratore aggiunto Vito Di Giorgio, i magistrati Fabrizio Monaco, Antonio Carchietti e Alessandro Lo Gerfo, avevano fatto emergere il controllo sul territorio nebroideo della famiglia dei Batanesi e quella dei Bontempo Scavo
Quasi mille anni di carcere (970 circa) e 30 milioni di euro di confische: è questa la richiesta avanzata dalla procura di Messina al termine della requisitoria, venerdì, del processo della mafia sui Nebrodi a carico di 101 imputati e 150 imprese. Un dibattimento iniziato il due marzo del 2021, nell’aula bunker del carcere di Gazzi a Messina e, nonostante la pandemia, arrivato già alle battute finali. Fondamentali durante il dibattimento sono state le deposizioni di tre collaboratori di giustizia, Carmelo Bargiovanni, Giuseppe Marino Gammazza e Salvatore Costanzo Zammataro. Poco più di un anno di processo, dunque, sono bastati per ripercorrere le accuse formulate dalla procura di Messina, guidata da Maurizio De Lucia. Nel gennaio del 2020 due diversi filoni di indagini del Gico e dei Ros, coordinate dal procuratore aggiunto Vito Di Giorgio, i magistrati Fabrizio Monaco, Antonio Carchietti e Alessandro Lo Gerfo, avevano fatto emergere il controllo sul territorio nebroideo della famiglia dei Batanesi e quella dei Bontempo Scavo. Una compagine mafiosa quella che operava negli alti monti del Messinese, confinanti con Catania ed Enna, capace di ottenere finanziamenti europei e di estendere il controllo nelle altre province. Le indagini avevano portato anche ad intercettare riunioni tra gli affiliati, dalle quali era emerso come i nebroidei fossero in grado di estendersi ad altre zone, rapportandosi anche con i clan di Catania, Enna e del mandamento delle Madonie di cosa nostra palermitana.
Una cellula dei Batanesi era perfino attiva nell’Ennese ed esercitava un attento controllo del territorio anche a Centuripe, Regalbuto e Catenanuova. Le indagini hanno svelato attività illecite tradizionali dell’organizzazione mafiosa tra le quali due distinte associazioni finalizzate al traffico di stupefacenti ed estorsioni, finalizzate, principalmente, all’accaparramento di terreni, la cui disponibilità è presupposto per accedere ai contributi comunitari. Alle attività tradizionali si accostava, però, quello che era il core business della mafia nebroidea: l’acquisizione illecita di terreni che gli permetteva di ottenere i finanziamenti dell’Unione europea. Ingenti contributi comunitari concessi dall’Agea, l’agenzia per le erogazioni in agricoltura: le indagini hanno rivelato come questa fosse la principale attività per tutta l’organizzazione mafiosa presente sul territorio. Dal 2013, grazie all’illecita percezione di erogazioni pubbliche, avevano ottenuto più di 10 milioni di euro, con il coinvolgimento di oltre 150 imprese agricole (società cooperative o ditte individuali), tutte direttamente o indirettamente riconducibili alle due famiglie mafiose, alcune delle quali meramente cartolari ed inesistenti nella realtà. Il tutto era stato possibile anche grazie all’apporto compiacente di colletti bianchi identificati dalle indagini: ex collaboratori dell’Agea e numerosi responsabili dei centri Caa (Centri commerciali agricoli). Persone che avevano le conoscenze necessarie per fare inserire la criminalità mafiosa nei meccanismi di erogazione di spesa pubblica, nonché esperti dei limiti del sistema dei controlli. Tra gli imputati anche Aurelio Faranda e Giuseppe Costanza Zammataro, considerati uomini di spicco della mafia sui Nebrodi. Gli imputati rispondono di associazione mafiosa, concorso esterno, intestazione fittizia, falso, truffa ed un episodio di estorsione. Un solo imprenditore, Carmelo Gulino, ha infatti denunciato le pressioni esercitate su di lui dal clan.