Cultura

“Così ho salvato i Bronzi di Riace”: parla il prof che guidò l’ultimo recupero delle statue scoperte nel mare della Calabria cinquant’anni fa

Il 16 agosto 1972 il sub Stefano Mariottini individuò le due sculture, risalenti a circa 2500 anni fa, di fronte a Riace Marina. A ilfattoquotidiano.it parla il professor Mario Micheli che coordinò il restauro conservativo per fermare il degrado anche interno: "Così scoprimmo anche impronte digitali e tracce delle manovre dello scultore"

di Marco Ferri

I Bronzi di Riace compiono 50 anni. O meglio: le due statue bronzee rinvenute a circa 8 metri di profondità dal sub Stefano Mariottini nel Mar Jonio di fronte a Riace Marina, in provincia di Reggio Calabria, effettivamente dovrebbero avere un’età di poco meno di 2500 anni, ma la loro scoperta risale al 16 agosto 1972, cioè mezzo secolo fa. Oggi la coppia di sculture si trova – e si fa ammirare – nel Museo nazionale di Reggio Calabria, dove sono tornate nel 2013, dopo il secondo intervento di restauro che si svolse a Palazzo Campanella, sede del Consiglio regionale della Calabria, poiché il museo nel frattempo era anch’esso in ristrutturazione.

Una volta “ripescati”, nella seconda metà degli anni Settanta del Novecento furono sottoposti a un primo intervento di restauro (soprattutto esterno, quindi estetico, legato alla rimozione delle concrezioni marine) nei laboratorio della Soprintendenza archeologica della Toscana a Firenze. A fine intervento, tra il 1980 e il 1981, si poterono ammirare al Museo archeologico nazionale per sei mesi e fu proprio quell’esposizione, seguita da un’altra romana (al Quirinale), che contribuì all’entusiasmo nazionale e internazionale che ha sempre circondato il loro ritrovamento, che non si è più spento. Ma se esternamente i Bronzi parevano non dimostrare la loro “vera” età, all’interno delle statue si stavano verificando dei pericolosi fenomeni di degrado che ne mettevano in pericolo l’integrità, per cui fu deciso un nuovo ricovero per il necessario intervento di restauro, più risolutivo rispetto al primo.

Nell’equipe di esperti che negli anni Novanta corse al capezzale dell’ormai famosa coppia bronzea vi era anche Mario Micheli – docente associato di Storia e tecniche del restauro del Dipartimento di Studi Umanistici all’Università degli Studi Roma Tre – a cui ilfattoquotidiano.it ha chiesto di spiegare come salvò i Bronzi di Riace. “Tutto – racconta – avvenne nel 1984 quando i Bronzi di Riace furono richiesti come testimonial delle Olimpiadi di Los Angeles. Il ministro dei Beni culturali di allora, Nino Gullotti, si preoccupò moltissimo della sicurezza di un tale viaggio, per cui fu chiamato in causa l’allora nuovo direttore dell’Istituto centrale del restauro, Umberto Baldini, il quale avviò il percorso che poi ha condotto al secondo intervento di restauro dei Bronzi di Riace, nel quale io ebbi un ruolo importante”.

Professor Micheli, quali furono i passaggi essenziali di questo intervento?
A pochi anni dal primo intervento di Firenze, Baldini decise subito di sottoporre le statue a un check up completo. Ricordo che la statua B era priva di un occhio e venne il dubbio che si trovasse all’interno della testa. Essendo presente un’apertura dietro il collo, pensarono di esplorare l’interno da quella. L’occhio non fu rinvenuto, ma decisero di proseguire con la rimozione della terra di fusione, poiché erano evidenti all’esterno delle tracce di corrosioni che provenivano dall’interno, attraverso delle lesioni. Prese così il via il tentativo di svuotamento delle due statue con mezzi meccanici, anche con scarso interesse a dire il vero, poiché gli esperti ritenevano che le due opere fossero state realizzate con il sistema della cera persa indiretto. Nel 1984 io mi occupavo di endoscopia e così Baldini mi spedì a Reggio Calabria con apparecchiature sofisticatissime, tra cui la prima microcamera collegata a un video arrivata in Italia.

Fece delle scoperte interessanti?
Direi proprio di sì. Rilevai pericolose corrosioni che erano all’interno delle sculture. A questo punto Baldini creò una speciale commissione di esperti, tra i quali Pier Roberto Del Francia, direttore del centro di restauro archeologico della soprintendenza, e Paolo Parrini, grande chimico della conservazione dell’Istituto Donegani di Novara, uno scienziato straordinario. Il gruppo di lavoro decise di radiografare i Bronzi e quindi progettai una campagna diagnostica che fu eseguita tra il 1984 e il 1985, cui fece seguito un’altra serie di indagini. Insomma per la prima volta i Bronzi furono esaminati a fondo. Oltre che capire meglio la situazione della terra residua, ricavammo informazioni importanti e allarmanti sullo stato strutturale delle due opere, in cui erano presenti molte lesioni.

E a quel punto decideste di intervenire?
Certo. Baldini ottenne una finanziamento speciale e mi chiese di progettare un metodo per completare la rimozione della terra di fusione dall’interno delle due sculture. Venne progettato un sistema molto complesso che si ispirava alla laparoscopia chirurgica che in quegli anni si era diffusa anche in Italia. Fu montato un laboratorio tecnologico straordinario, aperto al pubblico, a Reggio Calabria, e dall’ottobre 1992 alla fine del 1995 venne compiuto l’intervento sulle due sculture.

Filò tutto liscio?
Quando iniziò lo scavo interno della terra residua, l’operazione prese una piega inaspettata: si capì che questa terra di fusione era ricchissima di informazioni archeometriche, cioè all’interno della terra di fusione c’erano indizi evidenti delle manovre che lo scultore-fonditore aveva compiuto per modellare l’anima di fusione. Insomma si vedevano impronte digitali e tracce delle manovre compiute dalle mani dell’uomo per creare queste due sculture. Ecco che questo intervento pian piano si trasformò in un vero e proprio scavo archeologico: immediatamente contattai la mia direzione a Roma e chiesi il supporto di uno specialista di stratigrafia archeologica. Arrivò Massimo Vidale con cui proseguimmo l’intervento proprio come se fosse uno scavo archeologico.

Cambiò qualcosa nel vostro comportamento?
Venne messo su un gruppo di esperti con competenze diverse, costituito da bravissimi specialisti, nel museo archeologico di Reggio Calabria; si progettarono nuovi strumenti che ancora allora non esistevano, quindi praticamente venne per la prima volta ideato e attuato un restauro di tipo laparoscopico e attraverso questa metodologia la terra di fusione è rimasta, venne letta e tagliata scavata per sezioni trasversali progressive e alla fine tutte queste informazioni morfologiche che venivano rilevate gradualmente ci permisero di capire esattamente come erano andate le cose. Questo intervento di rimozione della terra di fusione, che alla fine pesò più o meno 40 kg per statua, durò due anni e mezzo e solo le ultime due settimane vennero dedicate al trattamento conservativo, cioè alla stabilizzazione di quei famosi fenomeni di corrosione interni che appunto avevamo determinato l’intervento. Quindi si trattò di un lavoro di ricerca archeologica, che comunque alla fine risolse anche problemi conservativi.

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