Quest’anno la scuola media unificata compie sessant’anni (legge 1869/62) e purtroppo li dimostra tutti, adesso si chiama scuola secondaria di primo grado ma nella sostanza è ancora quella. Fu una conquista epocale, figlia di una stagione importante nella storia dell’Italia e, come gran parte delle grandi riforme, è partita benissimo per trascinarsi fra improvvisazione, disinteresse, sottovalutazione e tagli alla spesa.

Tutto comincia con la Costituzione (1948), in particolare con l’art. 34: “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita […].”. Il Parlamento italiano ci mise 14 anni per dare applicazione alla Costituzione, lo fece solo quando si insediò il primo governo di centrosinistra nel cui programma i socialisti avevano imposto come pregiudiziali proprio l’istituzione della media unica e la nazionalizzazione dell’energia. Per dire come la scuola avesse allora un altro peso nella politica delle sinistre rispetto alle scialbe fotocopie di oggi, che parlano di uguaglianza e di diritto allo studio convinte che scimmiottare i modelli americani (gli stessi che hanno aperto la strada ai Trump) sia fare quello.

Prima di allora il sistema di istruzione post scuola elementare prevedeva due trienni distinti: il primo, l’avviamento professionale – con due opzioni possibili, quella industriale e quella commerciale: era un percorso di avviamento/addestramento al lavoro con ulteriore sbocco nelle scuole di specializzazione professionale. Il secondo, la scuola media, era invece finalizzato alla preparazione alla frequenza ai licei. A 10 anni di età il giovane cittadino e la sua famiglia erano costretti a scegliere fra i due percorsi quello che avrebbe segnato la sua esistenza. In realtà la scelta era già nelle cose: l’avviamento professionale se la famiglia aveva la necessità che la prole andasse presto a lavorare contribuendo al mantenimento; la scuola media se decidevano di investire in un periodo di formazione più lungo e inevitabilmente più costoso per dare una prospettiva di ascesa sociale attraverso l’istruzione.

Non fu però solo una questione di “ascensore sociale” individuale, anzi questo aspetto allora restò decisamente in secondo piano rispetto all’affermazione del principio del diritto all’istruzione come presupposto per ridurre le diseguaglianze, verso la modernizzazione dell’Italia attraverso l’allargamento dei diritti, a cominciare da quelli di cittadinanza. Quelli che aprirono la strada alla crescita tumultuosa del sindacato e, più in generale, della stagione politica e sociale a cavallo fra gli anni ’60 e ’70. Gli stessi che permisero agli imprenditori di disporre di manodopera scolarizzata, capace di comprendere le consegne, di leggere un manuale di istruzione, di cambiare mansione e compito adeguandosi ai cambiamenti tecnologici e organizzativi della fabbrica.

E’ in quel decennio che maturano le spinte più forti a una scuola che divenne l’ossatura della società, forte e capace di sostenerla nel suo impetuoso sviluppo e nell’altrettanta vorticosa trasformazione: la riforma della scuola media farà da apripista per una diffusa sperimentazione educativa che coinvolgerà innanzitutto la scuola elementare con la nascita del tempo pieno, fucina di sperimentazione non solo di tecniche e metodologie educative, ma anche di relazioni scuola/territorio, di articolazioni orarie per sposare la funzione sociale della scuola con quella di presidio culturale ed educativo soprattutto nelle periferie operaie delle grandi città. Per questo è interessante e attuale il dibattito politico che si sviluppò allora in Parlamento e nel paese: da una parte la destra conservatrice che non accettava l’idea di una scuola per tutti con le materie “vere”, gratuita e obbligatoria per 8 anni; dall’altra il più grande partito della sinistra, che votò contro la legge perché manteneva il latino solamente nell’ultimo anno e non nell’intero triennio.

L’istituzione della media unica scatenò una vera e propria rincorsa alla scolarizzazione che si innestò sul bisogno di modernizzazione e di uguaglianza che soffiava nel paese: 640mila nuovi iscritti alla scuola media unica nell’anno scolastico 1963-64, piani di edilizia scolastica per fare fronte alle nuove esigenze, reclutamento degli insegnanti necessari a fare fronte alla domanda; proliferazione delle scuole serali per gli adulti e molto altro ancora, a testimonianza della vera e propria corsa all’istruzione che l’istituzione della media unica fu capace di scatenare. Il tasso di analfabetismo passò dal 12,90% del 1951 al 5,20% di vent’anni dopo, con una divaricazione sempre più forte fra il Centro-Nord e le aree urbane e il Sud rurale (che manteneva percentuali superiori al 20% anche per mancanza di offerta). Poi fu la volta delle “150 ore per il diritto allo studio” (1973), una conquista sindacale nella scia dello Statuto dei Diritti dei lavoratori (1970) che istituiva permessi retribuiti nella misura di 150 ore per ogni anno scolastico per i lavoratori che desideravano frequentare la scuola media o superiore.

Fu la Flm – un troppo breve e molto intenso esempio di unità sindacale che fa bene ai lavoratori – a inserire per prima nella sua piattaforma rivendicativa la dicitura “diritto allo studio”. Con questo realizzava la saldatura fra la condizione del singolo lavoratore, quella del miglioramento individuale e collettivo attraverso la frequenza a un corso di studi, e la mobilità sociale derivante, che rimescolava le carte di un mondo ancorato nelle sue strutture industriali alle logiche del “padrone del vapore” ottocentesco. Furono i corsi di scuola media – preserali e serali – a fare la parte del leone, licenziando intere generazioni di ex analfabeti cresciuti nei tumultuosi primi anni 70 a “pane e 150 ore”. L’innovazione didattica e metodologica arrancava, lasciata più alla buona volontà dei singoli che a una ricerca di contenuti e metodi adatti ad affrontare il tema dell’istruzione di massa.

Poi cominciò la stagione dei tagli (oltre 12 miliardi negli ultimi 20 anni), dei ritorni all’indietro, spacciati per “innovazione”. Dalla riforma Berlinguer a quella della Moratti – che ancora oggi obbliga i quattordicenni a scegliere materie e specializzazioni quando nel mondo si cerca di allontanare il più possibile questo momento per privilegiare contenuti universali e di competenza generali -, passando per gli infiniti esercizi di arroganza di una politica sempre più disinteressata alla sostanza dell’istruzione, occupata com’è a classificarsi in atlantisti, populisti e tutti gli -isti di questi nostri tempi bui, testimoniando quotidianamente la sua irrilevanza. Dalla scuola delle soft skills a quella, terminale, del Ministro Bianchi e dei migliori, una serie impressionante di iniziative improvvide che hanno smontato anche la media unica insieme alla sinistra progressista italiana, che di scuola si nutriva e nella scuola confidava per la costruzione di nuova cittadinanza, integrazione, cultura dei diritti e dei doveri, il tutto condito da un po’ più di eguaglianza.

Ci vuole una nuova stagione che, rilanciando e rimodellando la scuola, sappia farne nuovamente un motore di costruzione dei cittadini di domani, promuovendo l’apprendimento di ciò che serve per stare al mondo da protagonisti, e agevolando la formazione di capacità e attitudini che “scrollino” una società invecchiata e sclerotica. Per farlo ci vogliono idee e investimenti: per le prime serve una forza politica che metta al centro del suo programma la modernizzazione della società anche attraverso l’istruzione. Quanto agli investimenti, nel nostro Paese il lavoro dipendente è più tassato delle rendite finanziarie; servirebbe una forza politica capace di invertire il rapporto e trovare davvero le risorse necessarie a rimettere in movimento l’istruzione italiana.

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