Quella che per quattro mesi era stata una guerra fra eserciti con armi, addestramenti e dottrine molto simili, per non dire uguali, all’improvviso ha visto gli Ucraini fare un salto di qualità: nella calda estate del 2022 le regole del gioco della guerra fortemente voluta da Putin sono state riscritte a causa dell’impiego di moderne armi occidentali da parte di truppe – quelle di Kiev – appositamente addestrate da Washington e dai suoi alleati. Certo, avevamo già osservato i soldati di Kiev all’opera con materiali NATO, come i Javelin, un’arma anticarro ormai celeberrima, o con i droni turchi Bayraktar, devastanti contro le posizioni tenute dai Russi: quelli, però, erano ancora tempi “eroici”, in cui i difensori puntavano a contenere i danni, senza l’ambizione di mutare l’andamento della guerra. E in cui, soprattutto, era Vladimir Putin a dare le carte. Ora non è più così.
Oltre agli obici forniti da Parigi e Roma, ai missili antinave arrivati da Copenhagen e alle tantissime tecnologie occidentali messe a disposizione degli Ucraini, sono arrivati gli M142 High Mobility Artillery Rocket System, i famosi HIMARS, lanciarazzi multipli leggeri sviluppati negli anni ’90 per l’esercito USA, montati sul telaio di un camion. Grazie a loro, gli Ucraini sono ora in grado di colpire depositi e basi russe in modo agevole, preciso e sicuro: insomma, si sono trovati fra le mani quello che gli esperti chiamano un’arma “game changer”. La storia militare conosce alcune armi o mezzi che hanno, in epoche diverse, cambiato, per così dire, le regole del gioco a cui gli stati maggiori si erano ormai assuefatti: un esempio classico è il B29, la “fortezza volante” che, nata come bombardiere diurno d’alta quota, ma poi utilizzata per bombardamenti incendiari notturni a bassa e media quota sul Giappone e tristemente nota per lo sgancio delle due bombe atomiche. Quando arrivarono le bombe A, i Nipponici erano già stati fiaccati dai devastanti attacchi delle “fortezze” e alla ricerca di una via di uscita dalla guerra.
Kiev ora è riuscita a svuotare a colpi di razzo i magazzini di armi, munizioni ecc. che gli invasori russi avevano allestito nel Sud dell’Ucraina così come nel Donbass: gli HIMARS sono diventati un inarrestabile martello capace di colpire giorno e notte basi e depositi dei Russi. Tutto questo avrà sempre più un impatto sull’unica arma che i Russi hanno usato con successo dall’inizio della guerra: l’artiglieria. Le bocche di fuoco di Mosca, usate in modo incessante ed estensivo per colpire obiettivi militari, industriali e civili oltre la prima linea, soffrono di una insaziabile bulimia di munizioni: alle loro spalle hanno bisogno di una catena logistica che faccia arrivare bombe e razzi, oltre a carburante e componenti di ricambio, dalle profondità della Russia fino alle retrovie e da lì, appunto, alla prima linea. Gli HIMARS hanno fatto saltare – e non solo in senso metaforico – gli ultimi 50-80 chilometri di questa “catena di trasmissione del terrore”.
Ora le truppe del Cremlino non possono più fare affidamento su depositi pieni di munizioni a portata di mano, ma devono barcamenarsi a portarle con mezzi di fortuna dal territorio russo fino alle posizioni dell’artiglieria. Presto, con l’arrivo di razzi capaci di colpire fino a circa 300 chilometri di profondità, anche le munizioni accumulate nella Crimea occupata e nelle regioni russe di confine saranno spazzate via e la logistica andrà, se possibile, ancora di più in crisi. Questo non vuol dire che l’artiglieria russa adesso si sia fermata: semplicemente, i comandi devono centellinare le munizioni, un po’ come noi Italiani abbiamo fatto in entrambe le guerre mondiali. Ed è bel un paradosso per un paese a cui l’URSS ha lasciato in eredità montagne di vecchie bombe e mezzi. Parallelamente, gli occupanti russi devono anche darsi alla “caccia alle streghe” per trovare informatori, cosa che aumenta il sostegno popolare alla lotta partigiana contro di loro.
Gli HIMARS non si limitano a colpire i magazzini, ma devastano caserme, sterminano ufficiali nei centri di comando, sbriciolano o danneggiano infrastrutture stradali e ferroviarie. E qui il pensiero corre al famoso ponte di Kerch, che chiude a Sud il Mare di Azov, oltre agli altri collegamenti viari verso la Russia. In una recente intervista, l’ex comandante delle forze NATO, generale Philip Breedlove, ha definito quel ponte un “bersaglio legittimo”: intanto, Kiev ha fatto sapere di conoscerne perfettamente i dati tecnici e Mosca ha organizzato le esercitazioni aeree e navali sulla gestione di un attacco. C’è poco da dire: è forte il sentore che qualcosa possa capitare a quel ponte, senza il quale, con i sistemi missilistici in uso a Kiev puntati su strade e navi, la Crimea finirebbe dal punto di vista strategico in un buco nero.
È evidente che il Cremlino per la prima volta dal 2014 ha perso la capacità di fare il proprio gioco: gli Ucraini ora possono scegliere se provare a liberare le città occupate del Sud dell’Ucraina attaccandole o semplicemente stringendole in un assedio difficile da sostenere per i Russi con mezzi limitati, la logistica devastata e il morale sotto gli stivali. Soprattutto, ora Kiev può aumentare la mobilità e la sicurezza delle proprie truppe riducendo la potenza dell’artiglieria russa.
Rimangono i missili. Se è vero che Mosca ha i missili ipersonici, è altrettanto vero che non può usarli fino a privarsene del tutto: non a caso sta usando quelli di epoca sovietica, veri fondi di magazzino, micidiali e imprecisi. È probabile che aumenterà la campagna del terrore per tentare di costringere la popolazione ucraina alla resa e che alzerà il livello dello scontro con l’Europa, considerata il ventre molle dell’Occidente, usando un po’ il gas e un po’ la minaccia di estendere il conflitto. Ma saranno reazioni: la guerra non è più decisa solo dal Cremlino.