Si rincorrono le telefonate dei leader europei, gli appelli degli amministratori e poi petizioni e manifestazioni. Intanto Salvini e Berlusconi parlano di "escludere altri governi con il M5s, ma attendere l'evoluzione della situazione". Così la domanda diventa se davvero c'è margine perché l'intenzione di dimettersi del capo del governo possa cambiare
Ora dopo ora sembra che lo sguardo di tutti passi lentamente e progressivamente dalla confusionaria e sterminata autoanalisi del M5s al primo piano del capo del governo che da tre giorni osserva un silenzio perfetto (o quasi, visti i numerosi retroscena dei giornali su quello che pensa e che non pensa). La domanda si trasforma: non è più “che intenzioni ha il M5s?”, quesito che quasi si è svuotato di senso, ma è diventata “cosa farà Draghi?“. Il presidente del Consiglio aveva già detto cosa vuole fare, giovedì, quando ha scandito davanti ai suoi ministri riuniti nell’ultimo consiglio che non c’è più quella maggioranza di unità nazionale sulle basi della quale è nato il suo governo. Ed è per quel motivo che è salito al Quirinale, deciso a rimettere il mandato nonostante la piena fiducia rinnovata dal Senato, pur senza i voti dei 5 Stelle. Nel frattempo però i sei giorni che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha chiesto al premier hanno dato un po’ di frutti – come il capo dello Stato immaginava – e le cose sono molto cambiate. A Palazzo Chigi si sono rincorse – raccontano i giornali – le telefonate di svariate le cancellerie d’Europa e del mondo (l’ultima quella del premier olandese Mark Rutte, “avversario” nella partita del tetto al gas), si sono accatastate le firme di oltre mille sindaci, si sono moltiplicati gli appelli di categorie economiche, dai trasporti ai medici, sono state proposte petizioni (c’è quella di Italia Viva arrivata, dicono i renziani, a 80mila adesioni), sono state organizzate manifestazioni di piazza (lunedì, a Roma, piazza San Silvestro). E poi ci sono i partiti: perfino Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, ai quali prudono le mani e sono tentati di capitalizzare subito con le urne la capitolazione del fu campo largo, da una parte denunciano sdegnati che con il M5s non governeranno mai più perché Giuseppe Conte ha “rotto il patto di fiducia“, ma dall’altra aggiungono anche che “con il consueto senso di responsabilità” sono lì che attendono “l’evoluzione della situazione politica“. Una svolta che – ammesso che arrivi – deve materializzarsi entro le prossime 48 ore, se è vero che – come dice l’Ansa – Draghi intende sciogliere la sua “riserva” martedì sera, anticipando le sue intenzioni a Mattarella, alla vigilia del discorso in Senato.
“L’evoluzione della situazione” di cui parlano Salvini e Berlusconi può essere traducibile in molti modi e tocca vari segmenti di questa storia. Draghi, secondo le ricostruzioni dei giornali, ha mandato a dire che tornerebbe a Palazzo Chigi per portare il governo a fine legislatura solo se i leader di partito o i loro ambasciatori in Aula si alzassero in piedi per esprimere il loro sostegno a questo esecutivo con tanto di mozione unitaria su cui porre la questione di fiducia. Ma a giudicare dalle dichiarazioni di Conte di sabato e di Berlusconi e di Salvini domenica questa ipotesi, a 72 ore dal dibattito in Parlamento, appare remota, tanto per usare un eufemismo. C’è una seconda ipotesi, però, che riguarda gli effetti che la linea intrapresa da Conte può avere sui gruppi parlamentari 5 Stelle.
L’orientamento dell’ex premier è prevalso nel corso delle riunioni scandite da tempistiche del Pcus. Ma quanti uscirebbero in dissenso? Il pallottoliere in queste ore assomiglia molto a un frullatore, ma per qualche giornale i fuoriusciti potrebbero arrivare a 20-30 alla Camera e a 5-10 al Senato. Truppe che andrebbero ad allargare ulteriormente la base parlamentare che – anche senza il sostegno del M5s – sosterrebbe la prosecuzione del governo Draghi. Basti pensare al Senato, dove – rispetto alla Camera – la maggioranza ha un margine (relativamente) più ridotto e dove il gruppo M5s ha più esponenti cosiddetti “contiani”. Qui, giovedì, quando i 5 Stelle hanno disertato il voto di fiducia sul decreto Aiuti, il governo Draghi ha ottenuto 172 voti. Con l’ulteriore contributo delle possibili uscite dal M5s in caso di rottura definitiva, potrebbero superare come minimo i 180 se non mettere nel mirino addirittura traguardi più lontani. Non sarebbero numeri che rappresenterebbero un’ampia maggioranza a cui fa riferimento il presidente del Consiglio per continuare il cammino a Palazzo Chigi? E’ per questo che è iniziata un’operazione di diversi partiti (in particolare Pd e Insieme per il futuro, la nuova sigla di Di Maio) per convincere i governisti dei 5 Stelle a saltare il fosso, mollare Conte e imbarcarsi in nome della “responsabilità“, come si dice in questi casi. Un’operazione che ha un obiettivo “superiore”, per alcuni degli altri partiti di maggioranza più vicini al premier, quello di far prendere in considerazione a Draghi l’opzione di continuare “con chi ci sta“, abbandonando la linea per cui “non esiste un governo senza il M5s” e lasciando al suo destino, anzi, quel che a quel punto resterà dei 5 Stelle, alla possibile seconda scissione in un mese. Magari numeri del genere potrebbero comunque assumere la forma di “maggioranza più ampia possibile” a cui Draghi tiene. Aveva detto nel dicembre 2021, alla conferenza stampa di fine anno: “La responsabilità quotidiana sta nel Parlamento così come la prosecuzione sta nel parlamento. E’ il Parlamento a decidere la vita del governo quest’anno e sempre”. E il Parlamento non ha mai tolto la fiducia all’esecutivo.
Per questo, appunto, gli appelli si moltiplicano e si dirigono non solo verso i partiti di maggioranza, ma anche verso il premier. “Draghi ascolti il Paese reale” dice il segretario del Pd Enrico Letta. “Confido negli appelli congiunti da più parti” aggiunge la capogruppo alla Camera Debora Serracchiani. “Stia dalla parte degli italiani” dichiara Luigi Brugnaro, il sindaco di Venezia. Luigi Di Maio, il ministro degli Esteri, fa una lista di 19 punti con quello che tutti gli italiani perderebbero se il governo cadesse, dalle riforme per il Recovery plan al salario minimo fino al superbonus. “Si rischia di perdere una cinquantina di miliardi, migliaia di posti di lavoro, bollette e caro spesa insostenibili per gli italiani” sottolinea il presidente della Liguria Giovanni Toti. Maurizio Landini, segretario della Cgil, è preoccupato “per una crisi sociale pesantissima” e “quello che può succedere in autunno: serve un governo nel pieno delle sue funzioni”.
Il punto diventa, insomma, cosa risponderà Draghi a tutti questi impulsi, a queste richieste “d’aiuto”. Ha passato la domenica nella casa al mare, a Lavinio, vicino ad Anzio, lunedì sarà in Algeria, dove andrà con mezzo governo, passaggio fondamentale nel percorso di indipendenza energetica dalla Russia. Sullo sfondo ci sono i fuochi di settembre. Secondo quando risulta all’agenzia AdnKronos da Palazzo Chigi dal punto di vista “sostanziale” non vengono registrati “particolari cambiamenti, ci sono molti distinguo”, anche se gli appelli dei sindaci vengono giudicati “molto importanti”. Se non ci saranno, insomma, cambiamenti “sostanziali”, se non ci sarà “un fatto politico”, riferisce l’Ansa, il premier mercoledì salirà al Quirinale per rassegnare l dimissioni, questa volta definitive. Ma “è questa pressione – scriveva domenica Francesco Verderami sul Corriere della Sera – che alimenta la flebile speranza di chi non si rassegna alle urne. ‘È il vento che sta cambiando’, diceva il titolare della Cultura Franceschini ad un collega di governo. E dietro quella espressione si celava un ragionamento, l’idea cioè che il premier – dopo essere apparso come la vittima di una crisi incredibile – rischi di apparire con l’andare del tempo come un capitano che abbandona la nave, se dovesse confermare le dimissioni”.