La morte di Eugenio Scalfari mi addolora, era un grande, l’ho frequentato per un decennio e conosciuto da vicino, ho lavorato sui suoi libri, ho curato il Meridiano, La passione dell’etica, dedicatogli da Mondadori. “Scalfari è un personaggio particolare, unico nel panorama della cultura italiana. Filosofo. Scrittore. Imprenditore. Giornalista. Politico: se Repubblica è – come credo – un ‘giornale-partito’. Difficile dire di lui senza valutare la globalità di questi interessi”. È l’incipit di Eugenio Scalfari e il suo tempo (Mimesis) e di molte valutazioni positive sulla sua personalità. Valgono ancora? Credo di sì, se a esse si affiancano le critiche sulle scelte più recenti. Per esempio, nell’ultimo decennio Scalfari ha intensificato il dialogo con grandi personalità di Santa Romana Chiesa: dal cardinale Martini a Papa Francesco (Conversazioni con Carlo Maria Martini; Dialogo tra credenti e non credenti).

L’attenzione agli eterni dilemmi della morale e della metafisica l’ha distolto, è il caso di dirlo, da una vigile coerenza sui temi della politica, della magistratura, del giornalismo. È utile ricordare uno scambio epistolare con Enzo Biagi:

“Caro Eugenio, non ho mai creduto che i giornalisti siano i depositari della verità; (…) qualche volta, di fronte ad alcune campagne di stampa, mi sento sgomento”. Scalfari risponde: “Caro Enzo, (…) Mi domando a che cosa servirebbe una stampa che smettesse di scagliar pietre. Certo, le pietre dovrebbe scagliarle la magistratura, che ne ha il compito istituzionale. Ma il procuratore generale Carmelo Spagnuolo… faceva di mestiere l’insabbiatore (…). In queste condizioni la stampa ha svolto un ruolo di supplenza”.

È una citazione lunga, ma necessaria. Dice della centralità di una magistratura che indaga e non insabbia, dell’importanza della stampa che denuncia. Queste idee sono state, negli editoriali più recenti di Scalfari, alquanto attenuate. Da qui una serie di valutazioni errate e le ragioni di molte obiezioni critiche e prese di distanza: da Barbara Spinelli a Paolo Flores d’Arcais, da Stefano Rodotà a Gustavo Zagrebelsky. Insomma: perché Napolitano, un tempo pieno di limiti, da un certo momento in poi diviene intoccabile? Perché la trattativa Stato-mafia è diventata, in tutti gli editoriali, la “cosiddetta” trattativa? Perché le intercettazioni Napolitano-Mancino andavano distrutte? Chi-insabbia-cosa, oggi? Perché i magistrati negli anni 90 andavano difesi e poi – anche se attaccati da Riina – nemmeno citati? Perché sul giornale di Scalfari il pacifismo, un tempo esaltato, oggi è ostracizzato?

Più ombre che luci nelle sue ultime analisi, ma resta un grande e i ricordi riemergono: ho lavorato molti anni sui suoi libri e di alcuni mi arrivava a casa il dattiloscritto per una lettura e una critica. Ricordo una lunga conversazione sul format di Per l’alto mare aperto: accolse i suggerimenti e mi regalò una copia con dedica particolare: “Ad Angelo mio biografo, che mi ha spiegato molte delle cose scritte da me senza averne io colto appieno il significato. Eugenio”. Ancora: era il 2011 e mi trovavo da qualche giorno a Lecce con Eugenio per la presentazione di Scuote l’anima mia Eros. Era stanco. Mi disse che voleva abbandonare l’appuntamento domenicale su Repubblica: “Farò come Montanelli, scriveva quando aveva voglia. Tu che ne pensi?”. “Repubblica – risposi – non sarebbe più la stessa senza la tua firma settimanale”. Scalfari sorrise visibilmente contento, non ha mai nascosto il suo narcisismo, e cambiammo argomento.

Si può criticarlo, certo, ma è stato un personaggio particolare nella storia d’Italia. Con Arrigo Benedetti fonda L’Espresso e nel 1976 avvia l’avventura di Repubblica: due giornali che hanno avuto una certa importanza nella formazione dell’opinione pubblica. Ha costruito amicizie significative, Scalfari: con Gianni Agnelli (il protagonista de La ruga sulla fronte, si ispira a lui); con Guido Carli, governatore della Banca d’Italia; Enrico Berlinguer, mitico segretario del Pci; Ugo La Malfa, Sandro Pertini, Carlo Azeglio Ciampi. Eccetera. Amicizie non nate per caso. Ma per stima. Per sintonia. Per la percezione del ruolo che Scalfari aveva nella formazione dell’opinione pubblica del Paese. Dalla denuncia del tentato colpo di Stato di De Lorenzo – e stiamo parlando di Storia, non di cronaca – agli editoriali contro la P2 di Gelli; dalla fermezza nel caso Moro, alle battaglie contro il Psi di Craxi e Tangentopoli, sempre ha difeso lo Stato di diritto e la democrazia.

Inoltre: non dimentichiamo che portò Umberto Eco all’Espresso, che dialogava con Alberto Moravia, che godeva della stima del cardinale Carlo Maria Martini. Non sono cose di poco conto. Certo, come tutti, ha fatto anche errori di valutazione che non giustificano gli attacchi personali che, da destra, talvolta ha subito. Siamo seri. Scalfari, Montanelli, Biagi: quando si parla di personalità così forti, non si dovrebbe dimenticare mai la loro storia: Italo Calvino – uno dei grandi del Novecento italiano – lasciò il Corriere per andare a lavorare con l’amico Eugenio a Repubblica; Biagi, quando il giornale di via Solferino visse gli anni bui della P2, trovò naturale scrivere sul giornale di Scalfari (andrebbe riletto il libro che scrissero insieme: Biagi-Scalfari, Come andremo a incominciare? Rizzoli, un lucido scambio epistolare che illumina su un’epoca).

Mi fermo qui. Difendo Scalfari? Sì, certo che lo difendo. Nonostante gli errori. Della sua opinione – così utile pure quando non condividevamo – abbiamo avuto sempre bisogno, anche per contestarla. Infine, Indro Montanelli. Si stimavano nonostante le diversità: “Scalfari e io abbiamo questo in comune: che non sappiamo mai bene se siamo più amici quando facciamo gli amici o quando facciamo i nemici”. Credo sia questo l’atteggiamento giusto. Critica e rispetto. Riposa in pace, Eugenio.

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