di Cristian Pagliariccio, psicologo

Le celebrità parlano sempre più spesso delle loro lotte personali per il diritto alla salute mentale. Fanno conoscere i propri disturbi, le discriminazioni subite e le loro fragilità. Discutono senza riserbo anche delle cure che hanno ricercato e ricevuto.

Lo stesso fenomeno ha coinvolto gradualmente chi ha raggiunto una fama più o meno grande nei social (influencer e microinfluencer) e le persone più comuni. Nelle piattaforme più note, soprattutto quelle più usate da giovanissimi e giovanissime, l’hashtag #SaluteMentale è spesso usato e seguito da numerosissime persone. Viene da chiedersi, quindi, se questi esempi personali siano realmente d’aiuto.

Nel discutere seriamente la questione, per fare chiarezza, è utile considerare studi scientifici. Al momento ne esistono pochi. Riguardano l’estero, ma danno buone indicazioni. Nel 2013, ad esempio, una ricerca ha considerato gli effetti di interviste fatte a 157 celebrità statunitensi, che hanno parlato apertamente delle loro esperienze con malattie fisiche e/o disturbi mentali. Il lavoro, realizzato da Christina Beck e la sua equipe, ha sottolineato che le celebrità che si espongono pubblicamente possono ispirare altre persone, per incoraggiarle a cercare aiuti adeguati e a comportarsi in modo più rispettoso verso chi soffre.

Nel 2021, Patrick Corrigan e la sua equipe hanno offerto un altro contributo, sottolineando che i resoconti di persone più comuni potrebbero avere effetti ancor più positivi rispetto a quelli delle celebrità, perché favorirebbero un avvicinamento emotivo tra le persone percepite più simili a sé. Ciò potrebbe avere un ruolo importante nel ridurre lo stigma e il disprezzo nei confronti di questioni che riguardano i disturbi mentali.

Di per sé, quindi, il fiorire di numerosi esempi personali che riguardano la salute mentale può avere risvolti molto positivi per il benessere della nostra società, favorendo un’evoluzione culturale. Ciò, però, potrebbe non essere esente da rischi.

Un primo rischio è procrastinare. Trovare un po’ di sollievo momentaneo nei social, attraverso messaggi di supporto, può far sì che le persone restino ancorate ai primi passi, di accettazione di sé e apertura, senza compiere ulteriori azioni. Ciò rallenterebbe il ricorso ad interventi. Un secondo rischio riguarda il disorientamento. Chi ha bisogno di aiuto può incappare in fenomeni di “opinionismo”. Molte persone parlano perché hanno formulato un’auto-diagnosi tramite internet, mai verificata, o perché sognavano di diventare psicologi o psicologhe (ripiegando su altro). Anche se mosse dalle migliori intenzioni e sembrano convincenti, le opinioni possono disorientare e favorire interventi improvvisati o, peggio, dannosi.

Con le dovute accortezze, quindi, questa nuova evoluzione culturale può essere benefica per chi soffre. Può ridurre lo stigma sociale e aiutare le persone ad aprirsi, per cercare aiuti validi ed esperti, rivolgendosi a professionisti e professioniste della salute mentale. Considerando anche il “Bonus psicologo”, che può dare una mano dal punto di vista economico, potrebbe essere più facile rivolgersi a un/a professionista, per proteggere e aumentare il proprio benessere psicologico.

Inoltre, nel tempo, questo nuovo contesto sociale potrebbe incoraggiare sempre più il ricorso a interventi di promozione della salute mentale e prevenzione nelle situazioni di rischio. Come per la forma fisica, infatti, anche a livello psicologico esistono molti interventi specialistici che aiutano a migliorare il proprio benessere, senza necessariamente aspettare di soffrire di un disturbo conclamato.

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

Il giornalismo per don Giuseppe Costa: le parole dell’ex editore del Papa

next