Un uomo che aveva detto di avere visto la “mafia in diretta”, un uomo che per 57 giorni nessuno a Caltanissetta chiamerà a testimoniare sui fatti di Capaci, un uomo a cui il suo “capo”, l’allora Procuratore di Palermo, dimenticò di dire che il tritolo per farlo saltare in aria era già arrivato in città, un uomo alle spalle del quale un pezzo di Stato stava aprendo negoziati con Cosa Nostra, un uomo lasciato con tutta la scorta in balìa della vendetta, senza nemmeno il conforto di quel divieto di sosta in Via d’Amelio, invocato e poi disposto a strage compiuta. Un uomo che con ogni evidenza, non avrebbe accettato alcuna mediazione, non avrebbe sentito alcuna ragion di Stato, non si sarebbe fatto addomesticare dal buon senso.
Cosa Nostra, quella dei Corleonesi, lo voleva morto, fece la propria parte perché ciò avvenisse, questa è una verità processuale ormai cristallizzata e non c’è motivo per dubitarne. Ma su tutto quanto il resto che portò prima alla più folle delle stragi mafiose, eseguita proprio quando il Parlamento tentennava sulla conversione in legge delle norme d’urgenza che avevano modificato il 41 bis, e che portò successivamente ad uno dei più sconcertanti depistaggi della storia giudiziaria italiana, c’è, come si sa, ancora quasi tutto da accertare.
La magistratura fa quel che può, ma come si è visto recentemente con il processo a carico dei poliziotti del gruppo stragi, agli ordini di Arnaldo La Barbera, quel che può è sempre meno: le stesse regole del processo penale, col passare del tempo, non fanno che militare incolpevolmente a favore dell’impunità dei responsabili di quei fatti terribili. In particolare nei tribunali di Firenze e Reggio Calabria sono ancora aperte partite delicatissime, che meritano tutta l’attenzione possibile.
Ma torniamo alla domanda iniziale: per chi era pericoloso Paolo Borsellino a quel punto della storia? Oltre che per i mafiosi patentati, naturalmente. Per tutti coloro che avevano tramato insieme ai mafiosi e che a vario titolo, per decenni, avevano goduto di una legittimazione istituzionale, che però gradatamente si era logorata sia per fattori esterni che per fattori interni e da ferrea che era, ormai a cavallo tra gli anni 80 e l’inizio dei 90, si era fatta di carta velina. Fragile e trasparente. Erano militari, uomini (e donne) dei servizi, delle forze dell’ordine, dell’amministrazione della giustizia, imprenditori, finanzieri, preti, politici e fascisti, che avevano agito prima sotto l’ombrello anti-comunista, poi per il consolidamento di un blocco di potere prodigo e clientelare, infine per personalissime rendite di posizione.
Anche costoro, in gran parte, andarono alla guerra contro lo Stato, per fare poi la pace. Contro quello Stato che stava prendendo corpo dopo l’89, quello Stato che si era manifestato nella maniera più devastante, proprio attraverso il suo apice indiscusso, Giulio Andreotti, che era andato in Parlamento a sputtanare Gladio alla fine del ’90. Quello Stato che rischiava di voltare loro le spalle, disconoscendoli e abbandonandoli al loro destino, così che un qualunque “giudice ragazzino”, si sarebbe potuto mettere in testa di riscrivere la storia del Paese. Anche costoro scrissero il loro “papello” che verosimilmente pretendeva totale impunità penale e conservazione dello status sociale, seppure in forme rinnovate. Avevano dalla loro un fattore che probabilmente i mafiosi patentati sottovalutarono: l’abitudine alla salvaguardia della continuità degli apparati di potere che costituiscono a vario titolo, la forza dello Stato. Perché è la “continuità” la lente più utile per interpretare la storia recente dello Stato italiano, almeno degli ultimi 100 anni: 1922-2022.
Altro che la lente della “rottura”, che pure viene spesso invocata come chiave di rilettura di questi 100 anni. Costoro, infatti, hanno avuto nella trattativa un successo decisamente superiore a quegli atri, i mafiosi patentati, che, a parte il solito Matteo Messina Denaro, stanno tutti arrestati, processati, condannati ed incarcerati. Forse un attento monitoraggio degli organigrammi di certe aziende e di certi enti (pure del “terzo Settore”), rivelerebbe la geografia di quest’ultima “Operazione Odessa”. Ci riflettesse Giuseppe Graviano che ha scelto il processo ‘ndrangheta stragista a Reggio Calabria non per collaborare con lo Stato, ma per mandare i soliti, frusti, messaggi ad i suoi interlocutori di un tempo, come se ci fosse ancora qualcuno disposto a dare valore al suo presunto peso ricattatorio.
Forse la collaborazione piena a questo punto della storia è l’unica via per bilanciare i conti, come avevano capito sia Buscetta, che Badalamenti (a cui però fecero cambiare idea sul più bello).