Se da bambino faticavo a considerare Thor uno dei supereroi più interessanti del panorama fumettistico era perché si trattava letteralmente di un dio, prima che di un eroe. Apprezzavo l’estetica pop donatagli dagli autori che lo avevano portato al successo – Jack Kirby su tutti – ma non riuscivo a empatizzare del tutto, pensavo gli mancasse quel lato umano che rendeva peculiari gli altri suoi sodali della Marvel. Non a caso, il fatto che avesse un alter ego mortale (Donald Blake, un medico affetto da disabilità) divenne presto una caratteristica secondaria del personaggio, del tutto soccombente rispetto alle atmosfere da leggenda norrena, tanto che non fu presa in considerazione per il grande schermo e presto scomparve anche dai fumetti. Trovavo piuttosto che fosse un personaggio in grado di dare il meglio in scenari collettivi come quelli degli Avengers, dato che arricchiva l’ensemble di un fascino squisitamente mitologico.
Ragion per cui, quando nel 2011 uscì la prima pellicola solista a lui dedicata (diretta da Kenneth Branagh), ricordo che non andai nemmeno al cinema perché ero convinto che un approccio shakespeariano ai vichinghi spaziali mi avrebbe lasciato indifferente. Ho imparato poi ad apprezzare le interpretazioni di Chris Hemsworth nei film collettivi della Marvel, dove di fatto il dio del Tuono era un buffo e potentissimo pesce fuor d’acqua, un nerboruto e antropomorfo MacGuffin, che si faceva ora Bud Spencer ora Terence Hill, al servizio della trama. Tuttavia una volta uscito dalle corde di un ring fatto solo di martellate tonanti e altrettanto tonanti risate temevo che il personaggio perdesse rilevanza. Non mi ha dunque stupito il buco nell’acqua fatto da The Dark World (secondo, pretenzioso film solista datato 2013) ed ero convinto che solo altri ruoli corali avrebbero potuto redimere il personaggio dalla dimensione di noia in cui rischiava di cadere.
Quando fu perciò la volta di Thor: Ragnarok, diretto dal pirotecnico Taika Waititi, trovai che la nuova formula adottata fosse efficace ma soprattutto che la sua scelta fosse fisiologica: una spirale di azione spettacolare e humor condita dalle mode estetiche del momento (in quel caso tinte e suoni retro/anni ‘80), unito a una coralità del cast di sicuro successo. Ad affiancare il biondo protagonista c’erano infatti l’Hulk di Mark Ruffalo (opportunamente ridotto a una spalla comica), l’apprezzatissimo Loki di Tom Hiddleston e la sagace Valchiria di Tessa Thompson. A essere sincero, però, rimasi altrettanto deluso dalla facilità con cui l’ensemble formale e contenutistico si appoggiava a uno humor molto basico per coprire i punti vuoti della trama, per uscire dall’angolo in cui stava finendo lo stesso genere cinematografico-supereroistico. Ben vengano i fumettoni che non si prendono sul serio, perché sanno che la materia trattata è subordinabile all’intrattenimento che riesce a produrre, ma la sensazione che mi lasciò fu quella di un super-cinepanettone di successo, una sorta di dignitoso “Natale ad Asgard” incapace di produrre discendenti virtuosi.
E qui veniamo al recentissimo Thor: Love and Thunder, di cui mi pare di aver letto commenti prevalentemente delusi da parte di critica e pubblico, a dispetto dei pur notevoli risultati al botteghino mondiale. Entrando in sala non mi aspettavo nulla se non una ripetizione di tutto ciò che aveva portato al successo Ragnarok: sono uscito convinto di aver visto qualcosa di superiore, sia in tema di realizzazione visiva che di sentimento profuso, che tuttavia sembra star pagando una certa mascella stanca del pubblico, alle prese con un biscotto sempre simile a se stesso.
Mi sbaglierò ma l’impressione è che Waititi sia lodato fin troppo generosamente per il suo humor e fin troppo poco per il modo in cui rende formalmente godibili due ore di pupazzoni garruli che si prendono a botte. È un regista di talento e sentimento, forse troppo indulgente col proprio umorismo puerile ma perfettamente in grado di trovare il giusto mezzo tra i suoi estremi. Col bizzarro frullato a disposizione avrebbe potuto fare decisamente peggio, invece ha scelto la via dell’onestà: una favola cartonesca, confezionata pensando ai fratellini e alle sorelline minori della generazione Z, con i fratellini e le sorelline della generazione Z al centro della narrazione, o almeno la proiezione che di loro ha la generazione dei genitori.
Tra un divertitissimo Christian Bale nei panni del villain, un grottesco Russell Crowe nei panni di Zeus e una Natalie Portman perplessa (a tratti commovente, data la sua storyline, e a tratti in modalità recita dei figli alle elementari), Waititi è montato sulle spallone istrioniche di Hemsworth riuscendo nell’intento di raccontare la buffoneria del tempo delle “icone”. Nel crepuscolo degli dei, gli idoli si mostrano infatti per quello che sono: una parodia dei più patetici atteggiamenti umani, e si riscattano soltanto nell’attenzione che sono in grado di dedicare all’empowerment delle generazioni future. Forte è infatti il parallelo tra le attitudini da rockstar del protagonista (corroborate da una colonna sonora che fa volentieri ricorso al machismo sopra le righe dei Guns’n Roses) e un certo senso di vuoto, di perdita e di sconfitta, desueto per chi si manifesta come detentore di un potere formidabile. Un buon risultato, per un genere che non riesce più a nascondere la fatica del doversi ripetere.
Il guaio è che il re sembra ormai irrimediabilmente nudo: gli archetipi originali dei fumetti – almeno da queste parti – non abitano più le loro spoglie cinematografiche e di conseguenza non hanno più lo stesso effetto sul pubblico. La macchina produttiva dell’industria hollywoodiana indossa abiti sempre più trasparenti e, a furia di commedione prevedibili (al netto del buon cuore), rischia di spolpare definitivamente il genere di ogni sua possibile valenza letteraria.