Nel XXX anniversario della strage di via d’Amelio, di Paolo Borsellino (ucciso con Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi) si è doverosamente scritto e parlato molto, mettendo giustamente in rilievo le sue grandissime doti, morali e professionali, e in particolare l’incredibile coraggio, vissuto e praticato in misura estrema dopo la morte di Falcone, nella certezza che la stessa sorte sarebbe toccata a lui.
Leggendo le riflessioni di Borsellino in tema di mafia, politica e giustizia (il recente libro di Giovanni Bianconi Un pessimo affare, ed. Solferino, è una vera miniera) colpiscono la lucidità dell’analisi e la fermezza delle prese di posizione, ancorché spesso controcorrente e perciò scomode.
Così Borsellino ha ripetuto in ogni occasione (interviste, audizioni, conferenze…) che la politica deve assumersi le sue responsabilità facendo pulizia al suo interno senza aspettare l’intervento giudiziario; “una grossa pulizia”, in modo da espellere “tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi e fatti inquietanti anche se non costituenti reato”. Non si stancava di ammonire che qualche condanna non poteva essere un alibi per un calo di tensione nella lotta alla mafia e che, in ogni caso, era illusorio pensare che si potesse vincere combattendo solo sul fronte giudiziario (per di più con mezzi insufficienti). Raccomandazioni – ieri come oggi – inascoltate; tant’è vero che Borsellino, come Falcone, diventa eroe soltanto dopo la morte: in vita veniva snobbato se non osteggiato.
Mirabile è anche la “didattica” (semplicità espositiva e grande comunicativa) con cui Borsellino si rivolgeva ai giovani. Per i quali appunto ha saputo coniare una delle più belle ed efficaci sintesi di quel che deve essere l’antimafia: “La lotta alla mafia non deve essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolga tutti, che tutti aiuti a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si contrappone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della complicità”.
Sottile e intelligente, infine, era l’ironia cui spesso Borsellino ricorreva. Alcuni esempi:
1) Anche per sdrammatizzare (o esorcizzare) la situazione di pericolo in cui viveva, a una delle figlie che stava per partire ebbe a dire: “ma insomma, dove vai? Se mi uccidono, come ti raggiungo, come ti chiamo?;
2) Il sovraccarico di lavoro lo affrontava dicendo: “Pregherò – sono cattolico – perché la giornata abbia un orario molto più prolungato delle povere ventiquattro ore che siamo abituati ad osservare”;
3) Per commentare l’inadeguatezza delle misure di protezione raccontava scherzosamente che cambiava le gomme in autostrada perché le auto di scorta che aveva in dotazione si rompevano ogni due per tre;
4) La “deportazione” nel carcere dell’Asinara di tutta la sua famiglia e di quella di Falcone, per poter scrivere “in sicurezza” l’ordinanza-sentenza di chiusura dell’istruttoria del maxiprocesso, la definiva una “vacanza”;
5) Intervistato, un paio di giorni prima di Capaci, da due giornalisti di una tv francese (ignorando che il filmato in Italia sarebbe stato trasmesso, rocambolescamente, soltanto qualche decina di anni dopo e solo per pochissimi), in una conversazione che partendo da Mangano spaziava su DellUtri, Berlusconi, Rapisarda, Ciancimino e altri, trattando anche di riciclaggio e/o investimenti della mafia al Nord, Borsellino aveva argutamente spiegato che se in una intercettazione si parla di cavalli da portare in un albergo evidentemente si tratta di ben altro (droga), perché i cavalli vanno all’ippodromo o al maneggio, non in albergo…
Ed è bello chiudere questo ricordo di Borsellino lasciando da parte le espressioni corrucciate per sostituirle con un sorriso. Dovremmo cercare di farlo sempre, perché la memoria delle vittime di mafia riesca quanto più possibile a scrollarsi di dosso la ritualità e la retorica di certe cerimonie commemorative.