Esattamente dieci anni fa – il 19 luglio del 2012 – migliaia di persone, nella Siria del nord, insorsero. Non era l’inizio della primavera siriana, che era iniziata oltre un anno prima, bensì di una rivoluzione dentro la rivoluzione – o contro un’altra rivoluzione. C’erano due rivoluzioni in Siria: una di destra (islamista) e una di sinistra (secolare). Non a caso chi insorse nel 2012 si ribellava non soltanto al regime di Assad, ma anche all’opposizione siriana riconosciuta dalla Lega araba e dalla Nato che, armata, aveva stretto accordi con la Turchia, inglobato Al-Qaeda e tentava di occupare con la forza città e villaggi che non lo volevano. La maggioranza delle persone che si ribellarono in modo organizzato erano curde: una comunità che vale il 10% della popolazione siriana e occupa le zone settentrionali dette Rojava.

L’opposizione egemonizzata dai fratelli musulmani e fedele a Erdogan aveva emarginato le voci progressiste al suo interno per usare sul terreno le più violente milizie del mondo. Esse cercavano in quei giorni di occupare i quartieri di città ricche di differenze e cultura come Aleppo e Damasco. Per questo tanti che avevano appoggiato, a gran voce o in silenzio, la primavera furono terrorizzati dall’alternativa oscurantista proposta da chi adesso agiva nel nome di Erdogan e avrebbe agito, ben presto, sotto le bandiere dell’Isis. Molti oppositori della prima ora si ritirarono dall’attivismo o videro addirittura il meno peggio nella restaurazione del regime, poiché gran parte della sinistra araba era, come quella europea, affetta da marginalità o elitarismo. Tra le comunità curde esisteva invece un’alternativa armata e organizzata. Per qualche ragione gli ex comunisti curdi erano stati in grado di sviluppare un nuovo paradigma ideologico in grado di conciliare modernità, illuminismo, rispetto per le nazionalità e tradizione.

Le folle in rivolta poterono essere così protette dalle unità di protezione del popolo (Ypg), cui si sarebbero aggiunte quelle di protezione delle donne (Ypj). Le prime sono quelle in cui combatté anni dopo il martire italiano Lorenzo Orsetti; le seconde quelle cui avrebbe aderito Eddi Marcucci. Nel luglio del 2012 le Ypj-Ypg tennero a distanza gli islamisti e, già che c’erano, cacciarono gli ultimi poliziotti e soldati del regime. Da allora hanno difeso una rivoluzione sociale e politica che dal Rojava si è estesa ai territori arabi e assiro-cristiani di tutto il nord-est, da Kobane a Raqqa, promuovendo l’uguaglianza tra donne e uomini nel matrimonio e nel divorzio, combattendo il femminicidio e la poligamia, istituendo forze autonome femminili contro le violenze di genere. Cooperative egualitarie ed ecologiche, e migliaia di comuni popolari sono state create in quei luoghi, dove tutti possono prendere parola e ricevere un’educazione all’insubordinazione e all’autogoverno.

Tutto ciò è purtroppo emerso nel cuore sanguinante del disastro della guerra. Undicimila combattenti sono caduti nella vittoriosa guerra contro Daesh, tra cui molte donne: la simpatia che hanno suscitato nel mondo non sempre ha corrisposto a una volontà di sostenere i loro sforzi, né di conoscere la realtà della loro proposta politica e sociale. Altre migliaia di persone muoiono nella resistenza alle ripetute invasioni e occupazioni turche, che hanno provocato mezzo milione di profughi e reso più duri gli embarghi di Erdogan su cibo, acqua, medicinali. Questa rivoluzione – unica nel nostro secolo – è ora nuovamente sotto la spada di Damocle di un’invasione turca, che la potrebbe distruggere completamente. Erdogan cerca da Putin l’autorizzazione ad attaccare Manbij, città liberata a duro prezzo da Daesh nel 2016, dove la Russia ha truppe. I vertici Nato hanno fatto comprendere che assicurano al tiranno di Ankara massima comprensione.

Se avverrà non possiamo restare inerti. Parlo degli italiani, non del nostro eventuale governo. Come ricordavo sopra, la storia della rivoluzione confederale in Siria è anche una storia italiana. In centinaia dal nostro paese l’hanno sostenuta nell’esercito o nella società civile, cosa di cui dobbiamo essere orgogliosi. Ultimi in ordine di tempo due coraggiosi ragazzi di Torino che, nonostante mille avversità, hanno raggiunto la Siria del nord-est inviando un video per spiegare la situazione; ricordando che l’opposizione alle invasioni e alle guerre, e la simpatia per chi combatte per la libertà, non possono procedere a giorni (o scenari) alterni. “Restiamo umani”, diceva un internazionalista a cui gli islamisti spezzarono la vita. Per riuscirci dobbiamo sostenere e studiare la piccola grande rivoluzione che, da un decennio, non cessa di indicarci una speranza e una via.

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