In Europa, le siccità sono un evento estremo, ma un estremo ricorrente. Dopo la grande alluvione del XX secolo (1970) Genova iniziò a patire una cronica scarsità d’acqua potabile. Frutto di deficit strutturali e di una inefficiente gestione degli acquedotti, metà pubblici e metà privati, con reti separate e disconnesse. I consumi avevano toccato vertici inattesi, con più 800mila abitanti da dissetare e una enorme domanda industriale: le acciaierie consumavano quasi un terzo delle acque addotte ogni giorno in città. La siccità che sconvolse l’Europa e gli Stati Uniti a partire dal 1975 e durò a lungo nel 1976, con pesanti effetti a grande scala, colpì a Genova un sistema molto fragile.

Nonostante i nubifragi del gennaio 1975 e la grandinata d’agosto, la crisi idrica fu lo scenario dominante del 1975/76 che dettò criteri drastici di razionamento. Quando andava bene, l’acqua veniva distribuita a giorni alterni e, in qualche caso, con le autobotti. L’aspra topografia complicava la distribuzione, per via della diversa pressione necessaria a rifornire le varie zone altimetriche. L’uso a singhiozzo delle condotte provocava frequenti rotture delle tubazioni che, zampillando sul selciato, facevano impazzire la gente già provata dai disagi. E c’erano perfino decisori politici che si fidavano dei miei rudimentali modelli stocastici di previsione, messi a disposizione delle autorità in assenza degli stregoni e dei rabdomanti da talk show oggi di moda.

Paradossalmente, il cittadino allacciato agli acquedotti privati con il vecchio sistema del ‘bronzino’ a bocca tassata si sentiva un privilegiato. Il vecchio bronzino – storico metodo di alimentazione che risale all’epoca romana – alimenta l’utenza con un modesto flusso continuo. L’utente deve perciò dotarsi di un piccolo serbatoio, personale o condominiale, per compensare la variabilità dei propri consumi in ragione della portata costante fornita dalla lente idraulica del bronzino (Figura 1). E disporre di un proprio serbatoio in epoca di razionamento ha un indubbio pregio.

Figura 1

La siccità dell’inverno 1989/90 e della successiva primavera provocò l’ultima seria crisi genovese. Solo gli utenti dell’acquedotto Nicolay, privato, furono esentati dal razionamento, grazie alla nuova diga di Busalletta. La crisi colpiva tutto il Genovesato: l’acqua veniva erogata per 14 ore, dalle 6 del mattino alle 8 di sera, dopo di ché i rubinetti restavano all’asciutto per 34 ore consecutive. Fu mobilitata la Protezione Civile che propose l’uso di navi cisterna. Stavano scaldando i motori, quando un autunno piovoso normalizzò la situazione: merito del governo Andreotti VI? Quello che, tra i suoi autorevoli membri, annoverava famosi ministri che diedero sostanza al detto popolare: “Piove, governo ladro!”.

Per due ragioni, Genova è oggi meno vulnerabile di allora nei confronti di una crisi idropotabile, sempre possibile.

La prima è la caduta della domanda. C’è stato un crollo verticale dei consumi industriali: l’acciaio a caldo non c’è più. Dal 1976 a oggi, inoltre, c’è stato un calo demografico straordinario. A fronte di quasi 850mila abitanti attorno agli anni 60/70 del XX secolo, la popolazione genovese è scesa a 560mila anime, un calo del 34 percento: Genova ha oggi meno abitanti che negli anni ‘30 del XX secolo, dopo che il fascismo aveva unificato la Grande Genova (634 abitanti in base al censimento del 1936). Anche con gli impianti e la gestione del 1976, la città avrebbe molta meno sete. D’altronde, l’Italia intera ha oggi meno sete di 20 anni fa: dal duemila a oggi il consumo idropotabile e industriale pro-capite è sceso del 20 percento a scala nazionale. A Genova, però, il sistema è cambiato dal 1976; c’è stato un miglioramento decisivo. Anche senza nuove grandi opere – se non la modesta diga di Busalletta, alta 60 metri e lunga 220, che peraltro invasa solo 4,5 milioni di metri cubi d’acqua – il gestore unico degli acquedotti ha potuto interconnettere gli impianti, unificare le reti, migliorare le prestazioni del sistema. La seconda ragione, quindi, è il merito dei genovesi che, razionalizzando il sistema, hanno superato divisioni ataviche.

Nel corso degli ultimi 10 anni, numerosi sono stati gli episodi di gravi crisi idriche metropolitane. Dal famoso spettro del “Day Zero” di Città del Capo (2017-2018) alla penuria idrica che affligge Chennai (già Madras) e San Paolo, Giacarta e Istanbul, nonostante il nuovo acquedotto intercontinentale del Melen (Figura 2). E, in Cina, continua a soffrire la stessa Pechino, il cui fragile sistema di approvvigionamento idrico avevamo studiato in dettaglio alla fine degli anni ‘80 del XX secolo: tema della tesi di dottorato della mia prima allieva cinese, Xie Mei, oggi presso la Banca Mondiale.

L’umanità ha imparato poco dalle ricorrenti crisi idriche, soprattutto sul piano politico e mediatico. Come ha scritto Kevin Winter della Università di Città del Capo, “Stabilire la pubblica fiducia nella gestione delle risorse idriche è fondamentale per conseguire una cooperazione diffusa da parte dei cittadini in quanto a comportanti parsimoniosi e risparmio idrico”. E la fiducia non si acquisisce con le alchimie finanziarie. La parsimonia è uno dei valori fondamentali della genovesità. Poiché molti si stupiscono della rapida recessione demografica genovese, l’archetipo genovese di “decrescita felice” merita un approfondimento che potremo affrontare in un prossimo post.

Il calo demografico porta con sé anche parecchi aspetti positivi, almeno sotto il profilo ambientale: meno consumi idrici, meno rifiuti urbani, minore domanda energetica, meno traffico urbano e meno inquinamento atmosferico.

Figura 2
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