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Crisi di governo, Draghi rinuncia a mediare e fa infuriare Lega e M5s. Si sfila anche Forza Italia: la maggioranza non esiste più. Ultimo atto alla Camera poi il premier al Colle

Il capo del governo rinuncia a mediare e fa un discorso che è un aut aut: o i partiti lo seguono o non sarà lui a inseguire loro. Attacca soprattutto la Lega, poi nella replica se la prende coi 5 stelle. Salvini e Berlusconi non votano la fiducia, così come i senatori di Conte: giovedì l'ex presidente della Bce a Montecitorio. Poi salirà di nuovo da Mattarella

L’unità nazionale non c’è più, tra poco non ci sarà più neanche il suo governo, eppure lui non nasconde un sorriso. In quella che è probabilmente la sua ultima uscita da Palazzo Madama da presidente del consiglio, Mario Draghi non sembra avere un’espressione delusa. Tutt’altro: dà uno sguardo alla gente, saluta a mano aperta come mai aveva fatto prima d’ora, poi s’infila in macchina. Finisce così quella che doveva essere la giornata decisiva per la stabilità del governo. E che decisiva lo è stata davvero, seppur in senso negativo: la maggioranza non c’è più, anche se tecnicamente il premier non è stato sfiduciato. Giovedì, alla Camera, Draghi annuncerà le dimissioni all’inizio del dibattito. Poi si recherà al Quirinale per dimettersi: esattamente come aveva fatto sei giorni fa. Stavolta, però, è probabile che il presidente della Repubblica prenda una decisione diversa dall’ultima.

Fine dei giochi – La scorsa settimana Sergio Mattarella, alla terza crisi politica in quattro anni, aveva rifiutato le dimissioni e concesso cinque giorni alle forze politiche. Una prassi che serviva a far decantare la situazione, ma che questa volta è stata completamente inutile. Alla fine di una giornata che Enrico Letta definisce “di follia“, al Senato tre dei quattro grandi partiti dell’ormai ex maggioranza di governo non votano la fiducia: al Movimento 5 Stelle si aggiungono Lega e Forza Italia. Non c’è più quella unità nazionale che, nelle parole del premier in Aula, garantiva “legittimità democratica ed efficacia” all’esecutivo. La fiducia, tecnicamente, Draghi la incassa comunque da parte di Pd, Leu, Insieme per il futuro, il centro di Giovanni Toti. Ma ottiene solo 95 sì. Un dato che lo porterà ad annunciare le dimissioni all’inizio del dibattito sulla fiducia alla Camera per poi salire in giornata al Colle.

Le opzioni – Se però quella che doveva essere la giornata di un nuovo “patto di fiducia” si è trasformata in una “pagina nera“- come la definisce Luigi Di Maio – la responsabilità è in qualche modo anche dello stesso Draghi. Il premier sapeva da giorni quali fossero le istanze dei partiti: i 5 stelle non avevano votato il decreto Aiuti dopo aver presentato una lista con nove punti. Nove richieste sulle quali Giuseppe Conte aspettava una risposta entro fine mese, e dunque tra altri dieci giorni. Dall’altra parte, Lega e Forza Italia erano pronti a un Draghi bis senza i 5 stelle. Il premier, che ancora oggi non è mai stato sfiduciato dal Parlamento, avrebbe semplicemente dovuto scegliere: risposte ai 5 stelle per provare a tenerli dentro, mediando poi col centrodestra. O risposte a Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, accettando di continuare senza i parlamentari di Conte. Cosa ha scelto di fare Draghi? Nessuna delle due cose.

L’aut aut – Durante il suo discorso il premier ha usato toni e modi che hanno fatto infuriare soprattutto la Lega. Un intervento che per i leghisti era indigeribile in vari passaggi: dalle tasse alle concessioni balneari. Il fastidio si è esteso poi anche a Forza Italia, visto che Berlusconi ha riunito gli alleati leghisti a casa sua all’orario di pranzo. Ma si sono innervositi anche i 5 Stelle, per “l’atteggiamento sprezzante“, come lo definisce Giuseppe Conte, silente per tutto il giorno, ma che a sera sbotta: “Siamo stati messi alla porta”.

La giornata al Senato – A Palazzo Madama Salvini aveva mandato il capogruppo Massimiliano Romeo a spiegare la linea: “Noi ci siamo” ma “con una nuova maggioranza e un nuovo governo”, con i 5 stelle fuori. Una posizione dura, su cui Lega e Fi arrivano unite in Aula, anche se gli smottamenti iniziano subito dopo, con l’addio, che fa rumore, di Mariastella Gelmini al suo partito. La condizione posta dal centrodestra, si guardano intanto sconsolati alcuni ministri, è “irricevibile” per Draghi. Che infatti alla fine del suo intervento non riceve applausi dai banchi della Lega. Certo, Draghi apre all’autonomia, alla riforma delle pensioni, ai miglioramenti al reddito di cittadinanza, al mantenimento degli obiettivi di transizione ecologica, alla risoluzione delle criticità sul Superbonus. Ma poi, attacca: non si può chiedere la sicurezza energetica per gli italiani e al tempo stesso “protestare” contro i rigassificatori. Non si possono sostenere le riforme e poi dare la sponda alla piazza, come nel caso dei taxi. Bisogna continuare ad armare l’Ucraina perché resta l’unico modo “per aiutare gli ucraini a difendersi”. Nella replica, invece, è ancora più duro ed esplicito. Attacca i 5 stelle su superbonus e salario minimo. E respinge l’accusa di diversi senatori di avere di fatto chiesto “i pieni poteri”. Batte spesso su una sorta di volontà popolare, che lo avrebbe spinto in Aula: “La mobilitazione di questi giorni di cittadini e associazioni è senza precedenti ed è impossibile da ignorare“, dice riferendosi agli appelli dei sindaci. E ancora: “Siamo qui, in quest’aula, oggi, a questo punto della discussione, perché e solo perché gli italiani lo hanno chiesto”. Insomma più che un discorso di mediazione quello di Draghi è un aut aut: o i partiti lo seguono o non sarà lui a inseguire loro.

L’ultimo atto – Per tentare fino all’ultimo di salvare il salvabile i partiti della oramai ex maggioranza chiedono ancora un’ora e mezza di tempo. Si cercano fino all’ultimo schemi e strategie per tenere ancora in piedi la legislatura. Parte un giro di telefonate tra i partiti e il Colle (“Berlusconi aveva comunicato la nostra proposta” a Draghi e Mattarella, precisano da Lega e Fi). Letta arriva al Senato e vede prima Federico D’Incà e Dario Franceschini, poi Roberto Speranza e Giuseppe Conte. Ci si appiglia anche alle regole procedurali: se Forza Italia, Lega e M5S non partecipano al voto manca il numero legale, l’ultima speranza dei governisti. Ma i 5 Stelle restano in Aula, il numero legale c’è e la fine dell’unità nazionale viene regolarmente certificata. “Abbiamo fatto il possibile” per evitare l’epilogo peggiore di una giornata “drammatica”, dice a caldo il Pd, che più di tutti si è speso per scongiurare il voto anticipato. Una “pagina nera per l’Italia”, la politica “ha fallito”, aggiunge Di Maio. E ora, prevede Letta, “si andrà a elezioni rapidamente”. Ma decidere i tempi sarà il Quirinale dove Draghi dovrebbe appunto salire domani, dopo il passaggio, probabilmente rapido, a Montecitorio per annunciare che si dimetterà.