Lo fa sapere in una nota stampa il gruppo di avvocate Differenza Donna, che ha presentato un ricorso - accolto - in merito a un caso riguardante una donna che, già vittima di violenza domestica, aveva subito uno stupro da un agente delle forze dell’ordine incaricato delle attività di indagini in corso sul maltrattamento subito dall’ex marito
Per la prima volta il Comitato Cedaw, organo delle Nazioni Unite incaricato di monitorare l’applicazione della Convenzione per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne, ha condannato l’Italia: “Ha accolto il nostro ricorso e ha riconosciuto che l’Italia ha violato gli articoli 2 (b)-(d) e (f), 3, 5 e 15 della Cedaw nei confronti di una donna che, già vittima di violenza domestica, aveva subito uno stupro da un agente delle forze dell’ordine incaricato delle attività di indagini in corso sul maltrattamento subito dall’ex marito”. Lo scrivono in una nota stampa ripresa dall’Agenzia Dire le avvocate Teresa Manente, Ilaria Boiano, Rossella Benedetti, Marta Cigna dell’associazione Differenza Donna, che riprende alcuni passaggi salienti di quanto affermato dal Comitato Cedaw. “L’agente delle forze dell’ordine era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione, poi assolto in secondo grado. La Corte di cassazione ha poi confermato l’assoluzione. Lo Stato italiano nel procedimento ha difeso le politiche nazionali adottate negli ultimi anni in materia di prevenzione della violenza di genere nonché l’operato dell’autorità giudiziaria, ma il Comitato Cedaw ha ritenuto che il trattamento riservato alla donna, prima dalla corte d’appello, e poi dalla Corte di Cassazione, non ha garantito ‘l’uguaglianza sostanziale della donna vittima di violenza di genere”. Il Comitato ha sancito per la prima volta che “l’eliminazione di stereotipi sessisti nel sistema giudiziario è un passo cruciale per garantire equità e giustizia per le donne vittime di violenza. Il trattamento discriminatorio subito dalle donne nelle aule di giustizia non dipende solo dall’impatto discriminatorio che le leggi di per sé hanno nei confronti delle donne, ma anche dall’assenza di specializzazione e di sensibilità delle autorità giudiziarie nell’applicazione della legge nei casi di violenza di genere e dall’utilizzo di pregiudizi e stereotipi discriminatori”.
In particolare, prosegue la nota, il Comitato ha stabilito che: “Spesso i giudici hanno adottato dei modelli rigidi riguardo il comportamento che considerano giusto per una donna e penalizzano coloro che non si conformano a quel modello. Gli stereotipi, inoltre, pregiudicano la credibilità delle donne, delle testimonianze e delle argomentazioni. Ciò ha delle conseguenze gravi, per esempio, nella giustizia penale, ove gli imputati di violenza sessuale non sono resi legalmente responsabili per le violazioni commesse, dunque sostenendo una cultura di impunità. In tutte le aree della legge, gli stereotipi compromettono l’imparzialità e l’integrità del sistema di giustizia e conducono a decisioni disancorate dalla realtà dei fatti e alla ri-vittimizzazione delle persone offese”. Nel caso in esame, secondo la Cedaw, le corti nazionali abbiano dimostrato: “Una chiara mancanza di comprensione dei costrutti di genere della violenza contro le donne, del concetto di controllo coercitivo, delle implicazioni e delle complessità dell’abuso di autorità, compreso l’uso e l’abuso di fiducia e l’impatto dell’esposizione ai traumi successivi. Il Comitato ha affermato- continua la nota stampa- che gli stereotipi crescono dove la legge non identifica in maniera chiara ‘il consenso’ quale elemento centrale del reato di violenza domestica. L’assenza di ciò porta a una errato scrutinio sulla vita privata della vittima e ad un a interpretazione delle norme basata su norme culturali e preconcetti che nega equo accesso alla giustizia e fallisce, non solo di proteggere la donna, ma ripetutamente la sottopone a discriminazione e ri-vittimizzazione. Se il consenso è portato come argomento della difesa, allora l’onere della prova non deve gravare sulla vittima, ma sulla difesa che deve provare l’esistenza ben fondata di un esplicito consenso”.
Sono stati riconosciuti, prosegue la nota, i danni specifici conseguenti all’accettazione degli stereotipi e i miti basati sul genere da parte dell’autorità giudiziaria di merito e della Corte di cassazione. Il Comitato ha deliberato anche misure di ordine generale che lo Stato deve adottare con urgenza e che riguardano la risposta legislativa e giudiziaria del nostro ordinamento dinanzi alla violenza di genere e sessuale. Sono state accolte, infatti, le nostre richieste di adottare misure efficaci per garantire che i procedimenti giudiziari relativi ai reati sessuali siano portati avanti senza ritardi ingiustificati e di garantire che tutti i procedimenti giudiziari relativi a reati sessuali siano imparziali, equi e non influenzati da pregiudizi o stereotipi di genere, indicando una vasta gamma di misure correttive rivolte a tutti i livelli del sistema legale. Chiude la nota stampa: “È stato raccomandato inoltre di fornire programmi di formazione specifici per la magistratura, per l’avvocatura e le forze dell’ordine, il personale medico e tutte le altre parti interessate, con la finalità di far comprendere le dimensioni legali, culturali e sociali della violenza contro le donne e della discriminazione di genere. Il Comitato raccomanda di sviluppare, implementare e monitorare strategie per eliminare gli stereotipi di genere nei casi di violenza di genere, che approfondiscano i danni prodotti dagli stereotipi e pregiudizi mediante ricerche basate sull’evidenza e l’identificazione delle migliori pratiche. Ulteriore raccomandazione del Comitato, che noi riteniamo cruciale, è quella di predisporre un sistema di monitoraggio e analisi delle sentenze delle tendenze del ragionamento giudiziario, predisponendo anche meccanismi di denuncia e controllo dei casi di stereotipizzazione giudiziaria. Ciò significa che magistratura, avvocatura e tutti coloro che agiscono nella qualità di agente statale (forze dell’ordine, servizi sociali, personale socio-sanitario ecc.) e fanno ricorso a stereotipi e pregiudizi sessisti nel loro operato, ne debbano rispondere”.
Arriva il commento positivo della senatrice Pd Valeria Valente, presidente della Commissione Femminicidio: “Differenza Donna ha riscosso una vittoria storica destinata a lasciare il segno nel nostro ordinamento, a favore delle donne e contro la violenza maschile. Si tratta di un grande risultato, completamente in linea con gli esiti delle diverse indagini svolte dalla Commissione di inchiesta del Senato sul Femminicidio e in particolare della relazione sulla vittimizzazione secondaria di donne e minori. Ora è determinate approvare il ddl in Commissione Giustizia che stabilisce che quando non c’è consenso c’è violenza”. Soddisfazione anche da Simona Lanzoni, vice presidente di Fondazione Pangea Onlus e coordinatrice della rete nazionale antiviolenza Reama: “Si tratta di un altro passaggio importante per prevenire non solo la violenza e ma anche la vittimizzazione secondaria nei tribunali, un tassello che si aggiunge alle altre pronunce internazionali sia della Cedaw che della Convenzione di Istanbul secondo cui quando non c’è consenso c’è sempre violenza sessuale. È su questo principio che occorre modificare l’ordinamento italiano, che deve porre al centro il consenso della vittima e garantire giustizia alle donne. Una giustizia che, troppo spesso, il sistema italiano ancora non garantisce e che invece dovrebbe essere già una pratica in tutti i tribunali italiani perché si tratta di disposizioni contenute nella Convenzione di Istanbul e negli articoli della Cedaw sula violenza. Ora occorre dar seguito quanto prima a queste ultime raccomandazioni, che ci auguriamo di leggere quanto prima con l’auspicio che vengano applicate il prima possibile nella loro integrità”.