Luca Serianni o della lingua e della grammatica italiana. Il celebre docente e ordinario di linguistica italiana a La Sapienza è morto a 74 anni dopo essere stato investito sulle strisce pedonali di Ostia e dopo due giorni di coma giudicato infine irreversibile. Uomo mite e curioso, studioso puntuale e mai sazio di conoscenza, era una sorta di scavatore instancabile nella storia, nei meccanismi, nelle trappole della lingua italiana. Filologia e ricerca, le parole d’ordine di una carriera iniziata nel 1970 e conclusasi con la pensione nel 2017, ma anche passione e competenza che l’hanno reso una delle poche fonti attendibili e influenti per redimere questioni sintattiche, grammaticali e spicciole di una lingua in perenne trasformazione senza mai perdere di vista le proprie immense radici. Tanti gli spunti di discussione e aggiornamento dello stato della nostra lingua che nelle interviste e chiacchierate Serianni rilasciava, come infiniti e lucidi i ragionamenti apparsi in molti suoi testi rispetto alla stratificazione che parole e linguaggio avevano assunto nel corso dei secoli. Prendiamo la querelle della lingua inglese dilagante nel sistema informativo come nelle scuole e addirittura nel linguaggio parlato di ogni giorno. Serianni non l’ha mai mandata a dire, ma sempre con garbo e puntualità da riverenza immediata: “sostituiamo con troppa facilità le parole italiane con quelle inglesi”, affermava secco. E poi elogiando francesi e spagnoli più sulla difensiva rispetto al loro patrimonio storico terminologico: “meglio tradurre e usare anglicismi solo se indispensabile”. Ascoltare Serianni, oltre che leggerlo, è sempre risultato un piacere per la compostezza e la chiarezza espositiva del suo ragionare, come della arguta e mai supponente perentorietà con cui si poneva verso l’uditore. “Qualunque lingua cambia più lentamente di quanto credano i parlanti”, spiegò quando recentemente lo intervistarono rispetto all’impatto dilagante dei tecnicismi della pandemia in ogni ambito della comunicazione. Saggio e finanche ottocentesco in figura e silhouette, Sarianni, spesso intravisto mentre chino sulla scrivania del proprio studio confrontava due o più testi, uno fianco all’altro, quando almeno uno di questi era antico e ingiallito dal tempo e dall’uso. E ancora, da esperto della lingua dantesca dichiarava lapidario, come un enciclopedia vivente e inappellabile: “Dante è il vero creatore della lingua letteraria italiana non perché l’ha usata per primo, ma perché l’ha declinata in tutte le possibili dimensioni. Affermare che Dante è il padre della lingua non è colorita retorica, ma è “alquanto giustificato”. Insomma, per Serianni l’obiettivo di scavo e analisi di testi e del parlato non era soltanto quello di individuare e sottolineare il “punctum” ma di riuscire ad affermare la certezza di un risultato storico documentale, in qualche misura, e anche se provvisoriamente, definitivo. In una recente intervista a Lettera43, Serianni discettava di un paio di questioni aperte come l’uso moribondo del congiuntivo (“ l’espansione dell’indicativo rispetto al congiuntivo è un fenomeno che risale a diversi secoli fa. Espressioni come “Penso che va bene” (invece di “vada”) o “ Se lo sapevo non venivo” (invece di “Se l’avessi saputo non sarei venuto”) hanno una lunga storia alle spalle”) e della sofferenza della punteggiatura (“il punto e virgola è in una condizione molto precaria, l’importante che sia sostituito dai due punti o dal punto fermo, non dalla virgola”), ma era in grado di rilasciare punti di vista anche di alto valore politico e per nulla qualunquisti o spocchiosi. Si pensi, ad esempio al ragionamento attorno al connubio aulico e contemporaneo tra professioni intellettuali e uso disinvolto di una certa tv: “ Il danno della tv non è linguistico ma culturale (…) penso al pessimo livello di alcune trasmissioni che vanno in onda nelle ore di maggiore ascolto, ma non si può dare la colpa solo a chi fa la tivù. C’è un generale decadimento dell’educazione e soprattutto non c’è più l’idea che l’acculturazione personale sia un valore in sé. (..) tra le cause credo ci sia una caduta di prestigio di alcune professioni intellettuali che un tempo avevano un’aura di promozione sociale, come ad esempio proprio gli insegnanti, i magistrati, o anche i medici, che furono tra i simboli della tradizione umanista”. Non ultima, va ricordata, la sua passione per la poesia. Così se volete ricordarlo nel modo migliore vi consigliamo Il verso giusto – 100 poesie italiane (Laterza), un atto d’amore verso la nostra lingua e allo stesso tempo la magniloquenza di un carotaggio verso su verso, strato dopo strato, dal presente al passato, dal passato al presente, di un inestimabile patrimonio letterario che perde oggi un suo straordinario, supremo, appassionato conoscitore.
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