“Io ci contavo sulla possibilità di avere un futuro con lui (il compagno, ndr) e infatti era proprio quello che in quei giorni stavo cercando di capire; è per questo che ho ritenuto cruciale non interrompere quei giorni in cui ero con lui anche quando ho avuto paura che la bambina potesse stare molto male o morire”. Così Alessia Pifferi, interrogata dal giudice per le indagini preliminari, Fabrizio Filice, ha tentato di giustificare il suo comportamento. Il giudice ha disposto per la 37enne, che ha abbandonato la figlia di un anno e mezzo per 6 giorni, il carcere per omicidio volontario nell’ipotesi omissiva aggravato da futili motivi. Il giudice ha escluso dunque l’aggravante della premeditazione contestata dalla procura e ha qualificato l’omicidio volontario nell’ipotesi dell’omissione.
Per il pm che aveva chiesto la convalida la 37enne è una persona “capace di commettere atrocità“, pericolosa e che non ha avuto “scrupoli”, volendo portare avanti le sue relazioni, ad abbandonare da sola in casa per quasi “sette giorni” nella “culletta” sua figlia Diana di un anno e mezzo, facendola morire di “stenti”. Una mancanza di quell’accudimento costante che è necessario per i bambini così piccoli. Le indagini sono state affidate alla Squadra Mobile che ha raccolto una serie di testimonianze da cui emerge che l’indagata aveva raccontato una serie di bugie a chi le stava accanto, compreso l’uomo di Leffe (Bergamo) con cui aveva una relazione e in casa del quale aveva partorito la figlia di cui non si sa chi sia il padre. Al compagno avrebbe detto che Diana era al mare con la sorella. L’uomo, sentito come testimone, ha spiegato che non sapeva nulla e quando un giorno sono stati a Milano la 37enne non ha chiesto di andare a casa. La madre dell’indagata ha spiegato che la figlia, dopo una separazione, era cambiata.
Secondo il gip la donna non si è limitata a prevedere e accettare “il rischio” che la piccola morisse ma, “pur non perseguendolo come suo scopo finale, alternativamente” lo ha voluto, come è risultato anche da varie dichiarazioni del suo interrogatorio, tra cui, come sintetizza il gip di Milano Fabrizio Filice, anche riferimenti alla “paura” e “all’orgoglio di non chiedere aiuto alla sorella“. Sorella che avrebbe potuto “in qualsiasi momento andare nel suo appartamento a soccorrere la figlia”. Secondo il magistrato l’indagata aveva una “forma di dipendenza psicologica dall’attuale compagno, che l’ha indotta ad anteporre la possibilità di mantenere una relazione con lui anche a costo dell’inflizione di enormi sofferenze” alla bimba. Con una “condotta dall’impatto intrinsecamente ed estremamente violento, anche se non in forma commissiva, nei confronti della persona in assoluto più vulnerabile”. La donna è “incline alla mistificazione e alla strumentalizzazione degli affetti” e non ha “rispetto per la vita umana”.